Ancora sulle commissioni di performance

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Ogni tanto sui giornali nazionali si riaccende il dibattito sulle commissioni di performance (performance fees). Da anni ne parliamo (con un Osservatorio dedicato fino al 2019) e salutiamo questa attenzione mediatica con soddisfazione, sia perché in generale l’importanza dei costi degli investimenti viene tendenzialmente sminuita dall’industria del risparmio e al contempo sottovalutata dai risparmiatori – che sono spesso scarsamente informati a riguardo e poco incentivati dagli operatori ad attrezzarsi – sia perché riemerge un’altra questione di portata europea (oltre alla rendicontazione dei costi prevista dalla normativa MiFID II) che il nostro Paese ha in un certo senso ancora “in sospeso” con il regolatore (Esma). Anche qui la chiamata alla trasparenza non arriva dalla flebile voce di Moneyfarm: arriva sempre più forte dalle Authorities nazionali ed europee.

Abbiamo sempre ritenuto che le commissioni di performance fossero commissioni ben poco trasparenti, di difficile comprensione per i risparmiatori e calcolate in modo decisamente arbitrario dagli intermediari finanziari. Siamo rientrati nuovamente in questo dibattito pochi giorni fa sulle colonne di Milano Finanza, con un intervento che riportiamo qui integralmente.

Quando si seleziona un fondo o, in generale, si decide di investire, l’analisi dei costi dovrebbe essere uno dei fattori decisivi per orientare la scelta di un risparmiatore. Ma nella pratica l’impatto delle commissioni viene spesso sottovalutato, soprattutto quelle di performance, dove la complessità delle strutture di costo non facilita. Come spiega Andrea Rocchetti, Head of Investment Advisory di Moneyfarm, società di gestione con approccio digitale che non applica commissioni di performance nei suoi portafogli.

Qual è la situazione italiana?
Da una parte abbiamo i fondi di diritto italiano, che già seguono regole stringenti imposte da Banca d’Italia, dall’altra i fondi di diritto estero, che hanno beneficiato di regole più blande. Proprio a questa eterogeneità, che rischia di sfociare nell’arbitraggio regolamentare, provano a porre rimedio le linee guida di Esma. Vale infatti la pena ricordare che, dei circa 1.000 miliardi di euro investiti in Italia in fondi aperti, circa 790 miliardi sono di diritto estero, di cui oltre 300 miliardi gestiti da società italiane. Nel 2019 si stima siano stati pagati dai risparmiatori italiani in totale circa 800 milioni in commissioni di performance. Abbiamo recentemente appreso che ci sono risparmiatori che si sono visti prelevare commissioni di performance nel secondo trimestre 2020, un trimestre positivo venuto dopo uno dei trimestri peggiori della storia dei mercati finanziari: questo è stato possibile proprio perché le società utilizzano fondi di diritto estero che gli consentono di applicare commissioni di performance anche sui rendimenti ottenuti in periodi molto ristretti. Le linee guida di Esma dovrebbero riuscire a mettere un argine a questi casi.

Il suo giudizio?
Innanzitutto diciamo che sono commissioni che si vanno ad aggiungere a una lunga lista di voci di costo applicate ai risparmiatori. Sono inoltre una tipologia di commissioni tutt’altro che semplice da comprendere. E il gestore che potrebbe essere incentivato ad assumere extra-rischio per ricercare rendimenti, specialmente in determinati momenti di mercato. Quindi il nostro giudizio non è positivo, a maggior ragione considerando le necessità dell’investitore retail e il livello di educazione finanziaria degli italiani, in media basso. Intendiamoci, chiaro che il lavoro del gestore deve essere remunerato, ma andrebbe rivista l’intera struttura commissionale dei prodotti di investimento, a partire dall’elevata quota parte di fee che vengono pagati ai distributori prima di andare ad applicare commissioni di performance, esclusive per i gestori, agli investitori finali.

C’è un modo equo per applicarle?
Tra tutte le tipologie di commissioni di performance applicabili, le più raccomandabili, secondo noi, sono quelle con il parametro di riferimento per il calcolo dell’extra performance che coincide con il benchmark dichiarato e provvisto di high water mark assoluto, senza reset o con reset pluriennale. Sarebbe equo, ancora prima di inserire una voce commissionale così complessa, ridurre altre voci di costo, dato che Esma ci ricorda che l’investitore retail europeo paga il doppio rispetto all’investitore istituzionale e che in Italia questo gap è superiore alla media.

Nei rendiconti MiFID II sono indicati i caricamenti di performance?
Le commissioni di performance concorrono al calcolo dei costi sostenuti nell’anno dal cliente, ma non sono espressamente indicate nell’informativa MiFID II inviata dagli intermediari, sono rese disponibili solo su richiesta del cliente.

L’Esma migliora la situazione?
Si tratta di principi doverosi che vanno nella direzione della tutela dell’investitore. Insieme alla MiFID II ci si sta muovendo nella direzione che da sempre auspichiamo.

Nell’articolo di Milano Finanza sono state anche riassunte in modo efficace queste Linee guida di Esma in materia di commissioni di performance, che dovrebbero offrire un’ulteriore incentivo agli operatori finanziari a operare nell’interesse dei risparmiatori.

 

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