Il mese di marzo è stato particolarmente ricco di eventi, con i maggiori indici azionari che hanno chiuso sorprendentemente piatti o in positivo, nonostante il protrarsi della guerra in Ucraina, il peggioramento delle aspettative di inflazione e la crescita rallentata.
Il migliore performer è stato l’azionario dei paesi sviluppati, in particolare quello americano. Il reparto fixed income ha invece sofferto, soprattutto negli Stati Uniti, a causa del maggior tono restrittivo delle politiche monetarie, con la curva dei tassi americana 2-10 anni invertita a fine mese ad alimentare paure di una possibile stagflazione.
Nonostante i numerosi elementi di incertezza, i dati macroeconomici delle maggiori economie avanzate hanno retto, con gli indici Pmi saldamente sopra i 50, mercati del lavoro solidi o in rafforzamento e aspettative di crescita positive (anche se rallentate).
Gli indicatori di sentimento dei consumatori sono crollati in Europa, segnale di possibile rallentamento della domanda nel breve e medio termine quantomeno per questa geografia. Le cose non vanno meglio in oriente con la Cina che ha messo un nuovo lockdown per milioni di persone a fronte della recente ondata di Covid. Questo ha dato sollievo alla domanda globale per l’energia, ma ha fatto sorgere domande sull’ outlook dell’azionario nei paesi emergenti e sui rischi per la catene di approvvigionamento globali.
In tutto ciò, i mercati rimangono ottimisti, scommettendo che l’economia globale è più forte delle tensioni inflazionistiche e che guerra e Covid rimangano nonostante tutto rischi gestibili.
Banche centrali
Nelle ultime settimane di marzo con la guerra lontana da scenari estremi, i mercati hanno velocemente riportato il focus su inflazione e politica monetaria. Powell, governatore della Fed, ha ricordato la volontà di combattere l’aumento dei prezzi ad ogni costo, riportando il numero di aumenti dei tassi prezzati dai mercati da 4 (all’apice del conflitto) a 9 per il 2022 (quasi 2 in più rispetto al periodo pre-invasione).
A peggiorare le cose, c’è poi anche l’aumento dei prezzi delle materie prime (in particolare petrolio e gas naturale) che ha ulteriormente rafforzato le aspettative inflazionistiche e, per la prima volta, gli investitori sembrano suggerire che la Fed sia in ritardo e debba alzare i tassi più di quanto suggerito dalle aspettative catturate nel meeting di marzo della Banca centrale Usa.
La curva dei tassi americana ha reagito con forza, con i tassi in forte rialzo per tutte le scadenze e un forte appiattimento tra i 2 e i 10 anni, fino ad una breve inversione a fine Marzo, in ciò che è tradizionalmente considerato un segnale di recessione nel medio termine (12 mesi). Infatti, un livello relativamente più alto nella parte breve della curva dovrebbe anticipare crolli dei tassi in futuro, causati da politiche monetarie espansive associate a crisi economiche.
Tuttavia, ci sono due ragioni principali per ridimensionare la forza di questo segnale:
1) L’inclinazione tra i tassi a 3 mesi e quelli a 10 anni rimane alta, suggerendo che la curva a due anni sia influenzata da delle aspettative di inflazione anormali nel breve e medio periodo;
2) i tassi reali rimangono estremamente bassi, suggerendo che l’economia possa continuare a godere di condizioni finanziarie “espansive”. Infatti, ciò implica che i tassi nominali siano ancora bassi data l’inflazione. Di conseguenza, non siamo sorpresi dalla mancanza di reazione dei mercati all’inversione.
In ogni caso il segnale evidenzia il nervosismo dei mercati sulla capacità della Fed di attuare un soft-landing, ovvero rialzare i tassi come da aspettative senza causare una recessione.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, nonostante l’inflazione in aumento sia più legata all’offerta (prezzi dell’energia in particolare) che alla domanda, la Bce sembra decisa a procedere con l’interruzione del Quantitative easing e rialzare i tassi almeno una volta prima della fine dell’anno. La domanda chiave è se, data appunto la natura dell’aumento dei prezzi, Lagarde sia pronta a fare retromarcia in caso di un peggioramento ulteriore delle condizioni economiche. In ogni caso, data la performance dell’azionario in entrambe le geografie, i mercati sembrano a proprio agio nonostante l’aumento del tono restrittivo delle Banche centrali e del rischio che non ci siano passi indietro in caso di recessione.
Posizionamento di portafoglio
In un contesto caratterizzato da un conflitto ancora non risolto e da politiche monetarie sempre più restrittive, continuiamo a privilegiare un livello di rischio relativamente basso e un’esposizione azionaria maggiore verso gli Stati Uniti rispetto all’Europa. Tuttavia, anche per via dei tassi reali bassi, l’azionario continua a rappresentare un’alternativa migliore rispetto all’ obbligazionario e nel nostro outlook di medio e lungo termine rimane positivo l’equity, seppur peggiore rispetto a pre-invasione.
Sul lato duration, date le aspettative di rialzi dei tassi, siamo convinti della nostra esposizione relativamente bassa. Infine, manteniamo investimenti significativi in materie prime e, per i portafogli a rischio più basso, in bond indicizzati all’inflazione.
*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.