Sono passati due anni dall’introduzione nel mercato dei piani individuali di risparmio (Pir). Per chi non lo sapesse i Pir sono una tipologia di strumento (di solito un fondo comune) che garantisce all’investitore un importante vantaggio fiscale, a patto che il capitale venga sottoposto ad alcuni vincoli. Questi vincoli riguardano la durata dell’investimento (che va mantenuto per cinque anni) e la strategia: la maggior parte del capitale deve essere allocato su titoli emessi da aziende italiane.
Nelle intenzioni i Pir servono a veicolare il risparmio degli italiani verso l’economia italiana e a incoraggiare l’investimento di lungo termine. Sin da subito decidemmo di non commercializzare soluzioni Pir compliant perché in contraddizione con la nostra filosofia d’investimento, che vede in un’ampia diversificazione il primo strumento di controllo del rischio, una valutazione in controtendenza rispetto a quella manifestata dalla maggior parte degli altri intermediari. A nostro avviso i Pir sono caratterizzati da alcune caratteristiche strutturali che non li rendono uno strumento adatto per un’ampia diffusione nel mercato dei cosiddetti investitori retail (ovvero quello delle famiglie e le persone che investono i propri risparmi) se non in piccole quote e inserito nel contesto di una strategia ben diversificata.
Uno strumento più complesso di come sembra
I principali punti critici riguardano: la scarsa diversificazione geografica, con conseguente concentrazione del rischio sul sistema Italia; la volatilità elevata, soprattutto legata alla performance dei listini minori di Piazza Affari, poca flessibilità per l’investitore (con un vincolo temporale di cinque anni per ottenere l’incentivo fiscale), scarsa flessibilità in termini di gestione; complessità del panorama investibile (proprio la stessa ragione che i gestori Pir chiamano oggi in causa per spiegare i costi piuttosto elevati degli strumenti).
Il nostro non fu un giudizio negativo sullo strumento in sé e per sé, ma un tentativo di sottolineare come questo prodotto sia in realtà più complesso di come viene in molti casi percepito e commercializzato. Suggerimmo ai risparmiatori con esigenze di protezione del risparmio di non considerare il Pir se non come una componente minoritaria del proprio piano di investimento, in un’ottica di maggiore diversificazione.
Nonostante queste criticità, il successo commerciale dei Pir ha superato nel 2017 ogni più rosea aspettativa. I flussi che gli strumenti portarono sui listini italiani furono così consistenti che si parlò addirittura di una piccola bolla dovuta proprio all’extra afflusso generato dagli strumenti stessi. Dopo due anni lo scenario sembra cambiato: nel 2018 la Borsa Italiana ha sottoperformato molti listini globali. Tutti i fondi Pir hanno hanno fatto registrare un andamento negativo nel 2018.
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(Dati aggiornati al 1 dicembre)
Bisogna chiarire: un investimento di lungo termine non va giudicato dalle performance di un singolo anno, tuttavia la volatilità che i fondi Pir hanno subito negli ultimi mesi ha evidenziato tutte le criticità proprie di questo strumento. Come si può notare dal grafico la performance aggregata (barre azzurro chiaro) di tutti i fondi azionari, bilanciati, flessibili e obbligazionari è stata negativa (sottoperformando un benchmark diversificato). Allo stesso tempo la trazione commerciale del prodotto (forse anche a causa di un’inversione di rotta da parte dell’industria) è rallentata, passando da flussi superiori al miliardo e mezzo di Euro al mese, ai 60 milioni di novembre.
Il consiglio per gli investitori resta quello di non sovrastimare l’effetto dall’incentivo fiscale è considerare strumenti Pir solo in un allocazione marginale del proprio patrimonio investibile.
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