Nel corso del Federal Open Market Committee di Settembre la Federal Reserve ha deciso di lasciare i tassi di riferimento invariati, confermando un livello compreso tra lo 0% e lo 0.25%.
Si tratta del livello più basso della storia monetaria degli Stati Uniti, frutto dell’ultimo ribasso del dicembre 2008, in piena crisi finanziaria.
La decisione conferma le aspettative dei mercati, che alla vigilia prezzavano solo il 32% di probabilità di un rialzo, dopo essere arrivati a prezzare fino ad oltre il 50% di probabilità nella prima parte dell’estate.
La reazione dei mercati è stata tranquilla sui mercati azionari nell’immediato (S&P500 -0,26), seguita da cali nella mattina successiva in Europa. Sui mercati obbligazionari e valutari si sono visti movimenti significativi: il tasso a due anni americano è sceso a 0.67%, dallo 0.80% del giorno precedente e il dollaro contro euro è tornato a indebolirsi (1.14). Hanno pesato su questi mercati non solo la scelta di tenere i tassi invariati ma anche le parole della Yellen, che è sembrata più accomodante del previsto.
La decisione della Fed era dunque attesa, ma il dibattito è stato profondo nei mesi precedenti e continuerà ad esserlo nelle prossime settimane.
Dal punto di vista della Fed, è importante far passare il messaggio che la decisione è stata presa in modo autorevole sulla base di considerazioni razionali (la Cina, l’inflazione bassa, i dubbi sul mercato del lavoro), indipendentemente dalle pressioni in arrivo dai mercati.
Dal punto di vista di analisti, economisti o operatori di mercato, le opinioni sono molto più divergenti.
I tassi zero sono ormai da quasi tutti accettati come una scelta fatta in modo coraggioso e decisivo nel 2008, seguiti da quantitative easing e altri strumenti straordinari di politica monetaria che hanno permesso di superare la fase di emergenza. Ma la durata e la continua necessità di queste politiche espansive sta diventando fonte di nervosismo per chi sostiene che la questione cinese, l’inflazione bassa ma in salita e il mercato del lavoro non richiedono più politiche così eccezionali. L’abitudine ai tassi zero è per alcuni una dipendenza, una debolezza dei mercati che non promette nulla di buono per il futuro, perché costringe a pensare la politica monetaria sempre in termini emergenziali anche quando l’emergenza non è più di tale portata come lo era nel 2008. Lo stesso Bill Gross, gestore con oltre 40 anni di storia alle spalle e di autorevolezza tale da poter parlare fuori dal coro, da alcuni mesi sostiene che i tassi zero sono diventati parte del problema, non più una soluzione.
Oltre alle tensioni macroeconomiche di cui si è detto, probabilmente la quantità di debito pubblico e privato a livello globale è la ragione più profonda che porta operatori e banca centrale ad essere estremamente cauti nell’immaginare un rialzo dei tassi di interesse, che potrebbe avere conseguenze non facilmente stimabili sulla sostenibilità del debito di molti emittenti.
La Fed, oltre che banca centrale americana, si trova a svolgere il ruolo di banca centrale mondiale, per la dimensione dell’economia e della finanza americana nel mondo. Ha dimostrato leadership nel 2008, guidando con successo la lotta alla crisi finanziaria. Dovrà dimostrare la stessa autonomia e proattività anche nel gestire l’uscita da questa situazione di tassi zero: la decisione di non fare nulla in settembre è per qualcuno una conferma di questa leadership, per altri è il simbolo di una leadership in declino.