Politica Usa e Fed: verso un cambio di rotta

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L’amministrazione americana prosegue nel tentativo di accrescere la propria influenza sulla Federal Reserve. In questi giorni sta valutando la rimozione di una governatrice della Fed sulla base di presunte irregolarità legate a un caso di mutui del 2021. In teoria, la Fed è un’istituzione indipendente dal potere politico: risponde al Congresso e i suoi governatori possono essere rimossi solo per “giusta causa”. Anche se i dettagli del caso non sono centrali, è evidente che l’amministrazione sta cercando strumenti per orientare la banca centrale verso i propri obiettivi.

Perché l’indipendenza delle banche centrali conta

In generale, l’indipendenza della banca centrale è considerata positiva: significa avere decisori non vincolati ai cicli elettorali o alla pressione dell’opinione pubblica. Ma non è sempre stato così: basti pensare che la Bank of England ha ottenuto l’indipendenza in materia di politica monetaria solo nel 1997.

Negli Stati Uniti l’attenzione si concentra soprattutto sui tassi di interesse. Il Presidente e il segretario al Tesoro hanno più volte sostenuto che i tassi della Fed siano troppo alti e vadano ridotti. Formalmente non possono imporre una decisione, che spetta ai membri votanti della banca centrale, ma possono esercitare una forte pressione pubblica. Non è una novità assoluta – anche altri presidenti in passato hanno tentato di influenzare la Fed – ma l’attuale amministrazione sembra molto più determinata a riportare la politica monetaria sotto controllo politico diretto.

Oltre i tassi: il bilancio della Fed

Occorre ricordare che la Fed non gestisce solo i tassi di interesse. Negli ultimi anni ha utilizzato il proprio bilancio per orientare le condizioni monetarie, con il cosiddetto Quantitative Easing (QE), acquistando titoli di Stato e obbligazioni ipotecarie. Molti osservatori ritengono che proprio il QE sia il vero obiettivo dell’amministrazione, perché avvicina la politica monetaria a quella fiscale, permettendo di finanziare indirettamente la spesa pubblica.

Dopo la crisi finanziaria del 2008, la Federal Reserve portò i tassi di interesse praticamente a zero (si veda il grafico sotto). Per fornire ulteriore stimolo, la Fed iniziò ad acquistare titoli di Stato Usa, obbligazioni di agenzie federali e alcune obbligazioni societarie – di fatto immettendo più denaro nel sistema finanziario. Anche altre banche centrali seguirono un approccio simile. Molti sostennero che si trattasse, in realtà, di politica fiscale mascherata, finanziando la spesa pubblica semplicemente stampando più moneta, e che ciò avrebbe creato distorsioni nell’economia. Le opinioni restano divise su quanto questa politica sia stata realmente efficace nel sostenere l’economia.

Il grafico sottostante mostra l’evoluzione del bilancio della Fed nel tempo. Possiamo osservare che la banca centrale aumentò le proprie detenzioni di Treasury e obbligazioni ipotecarie durante la crisi, per poi mantenerle sostanzialmente stabili. Con l’arrivo del Covid, la Fed adottò la stessa strategia: tassi a zero e acquisti aggressivi di titoli di Stato per sostenere la spesa pubblica. Dal 2022, invece, la Fed ha progressivamente ridotto le proprie disponibilità, in gran parte evitando di reinvestire in nuovi Treasury man mano che i titoli in scadenza venivano rimborsati.

L’attuale amministrazione vorrebbe che i tassi ufficiali scendessero (come la maggior parte delle amministrazioni), ma desidererebbe anche che calassero i rendimenti dei titoli a più lunga scadenza. Non è così semplice. Il tasso ufficiale può avere un impatto significativo sui tassi a breve termine, ma molto meno su quelli dei titoli a 30 anni, ad esempio – che hanno il maggiore impatto sui tassi dei mutui nell’economia più ampia. È possibile che, più i tassi ufficiali vengono ridotti, più gli investitori diventino preoccupati per l’inflazione a lungo termine e, di conseguenza, richiedano rendimenti più alti sui titoli a lunga scadenza.

Il grafico sottostante illustra il punto. Mostra la differenza di rendimento tra un Treasury statunitense a 30 anni e uno a 2 anni. Abbiamo visto questo differenziale salire costantemente nell’ultimo anno – sebbene, a nostro avviso, nel 2022 e 2023 il livello fosse insolitamente basso.

Il punto, quindi, è che se si ritiene che i tassi d’interesse a lungo termine siano troppo alti, avere il controllo dei tassi ufficiali non risolve necessariamente il problema. La possibilità di acquistare titoli a scadenza più lunga potrebbe contribuire ad abbassarli – ma non è affatto certo – ed è comunque qualcosa che i decisori politici potrebbero prendere in considerazione.

Pensiamo ora a cosa potrebbe accadere se l’amministrazione riuscisse davvero a esercitare un maggiore controllo sulla Fed – con ogni probabilità attraverso la nomina di governatori più allineati alla propria visione. I tassi ufficiali scenderebbero e la Fed potrebbe potenzialmente ricominciare ad acquistare più Treasury. Quali sarebbero gli effetti? Le stime, basate sull’esperienza della crisi finanziaria, parlano di un impatto fino a circa 100 punti base sui rendimenti dei Treasury.

Inevitabilmente, non è così semplice. Una combinazione di tassi più bassi e di nuovo manovre di Quantitative Easing potrebbe spingere l’inflazione verso l’alto, inducendo gli investitori a chiedere rendimenti più elevati per continuare a comprare Treasury. Se ciò avverrà o meno dipende molto dalla visione che si ha sull’andamento dell’inflazione. Nel decennio successivo alla crisi finanziaria, i prezzi sono rimasti relativamente contenuti. Ma oggi la situazione è diversa. Il grafico sottostante mostra l’inflazione negli Stati Uniti: siamo vicini all’obiettivo del 2% tipico delle banche centrali dei Paesi sviluppati, ma non ci siamo ancora – e il rischio è che nuovi dazi possano alimentare ulteriori pressioni inflazionistiche.

Anche la dinamica salariale, secondo le stime della Fed di Atlanta, resta piuttosto robusta, sopra il 4% annuo. Questo suggerisce che condizioni finanziarie più espansive potrebbero tradursi in un’accelerazione dei prezzi in tempi relativamente rapidi.

Infine, se investitori e famiglie arrivassero a pensare che la Fed non interverrà per contrastare un aumento dell’inflazione (alzando i tassi), inizierebbero a ipotizzare un’inflazione strutturalmente più alta, con effetti a catena sulle richieste salariali e sui rendimenti obbligazionari.

Dove ci porta tutto questo? È troppo presto per dire con certezza quale sarà l’evoluzione della politica monetaria statunitense, ma è ragionevole pensare che l’amministrazione cercherà di plasmare la Fed a propria immagine – con un orientamento più accomodante. Considerando che l’inflazione negli Stati Uniti potrebbe rivelarsi piuttosto persistente – ovvero che raggiungere il 2% sarà difficile – crediamo che una politica più accomodante avrebbe un impatto negativo sull’andamento futuro dei prezzi.

Implicazioni per mercati obbligazionari e azionari

Cosa significa per i mercati? Normalmente, una prospettiva inflazionistica simile sconsiglierebbe di acquistare obbligazioni a lunga scadenza negli Stati Uniti. Ma il calcolo si complica se la Banca centrale dovesse tornare ad acquistare titoli e se il divario di rendimento tra bond a breve e a lungo termine continuasse ad allargarsi. In ogni caso, la nostra inclinazione resta quella della prudenza in merito ai Treasury a lunga scadenza.

Per quanto riguarda l’azionario, lo scenario è ancora più complesso. Molto dipende da dove si stabilizzerà l’inflazione. È facile dire che un’inflazione al 20% annuo non sarebbe positiva per le Borse, ma se si collocasse al 4-5%, i dati sono meno chiari. In tale scenario, con una crescita nominale del Pil più sostenuta, le aziende ben gestite potrebbero prosperare, controllando i costi e trasferendo parte degli aumenti sui clienti. Fino a un certo punto, questo potrebbe accelerare la crescita degli utili, anche se sul piano sociale non sarebbe sempre sostenibile. Tuttavia, le valutazioni di mercato potrebbero soffrire in un regime di inflazione più alta. Anche qui, la storia non fornisce indicazioni univoche: i multipli azionari tendono a calare con inflazione molto elevata, ma con un’inflazione a una cifra medio-alta la relazione è meno evidente.

In conclusione, man mano che navighiamo nell’attuale contesto di mercato, ciò che sembra chiaro è la necessità di considerare un ventaglio più ampio di scenari di politica monetaria negli Stati Uniti rispetto a un anno fa.

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