Negli anni ’80, il Giappone ha vissuto un ineguagliabile boom economico, alimentato dall’impennata dei prezzi delle proprietà e delle azioni.Tuttavia questo boom fu di breve durata e, nei primi anni ’90, la bolla alla fine scoppiò.
I valori degli asset crollarono rapidamente, provocando diffusi fallimenti. Ci furono anche alti livelli di “debiti cattivi” e un calo nella spesa dei consumatori e degli investimenti. Entro metà degli anni ’90, le banche dovettero fare i conti con un aumento delle quantità di debiti in sofferenza, limitando gravemente la liquidità nel mercato e ostacolando la capacità di queste di stimolare la crescita economica.
Queste erano le circostanze economiche che hanno caratterizzato il cosiddetto “decennio perduto” del Giappone, dagli inizi degli anni ’90 ai primi anni 2000. La crescita fu lenta, con un PIL che oscillava intorno all’1% e i tassi erano negativi. Nel frattempo, la deflazione si accentuò mentre i tassi di disoccupazione raggiunsero quasi il 5% e il sentiment dei consumatori crollò.
Per combattere la prolungata recessione economica, il governo e la Banca del Giappone hanno attuato una varietà di pacchetti di stimolo (inclusa la QE), politiche monetarie e tentativi di riforme strutturali. Sebbene queste misure abbiano alla fine contribuito alla ripresa del Giappone, la deflazione persisteva, con l’indice dei prezzi al consumo che raggiunse una crescita negativa del -1,6% nel 1999.
L’economia si riprese gradualmente, ma i progressi furono lenti. Il Giappone ha sperimentato una crescita moderata dal 2000, ma ha anche mostrato segni di resilienza e adattabilità. La disoccupazione è rimasta bassa da allora e il paese rimane un leader globale nella tecnologia e nell’innovazione. Nel frattempo, Tokyo ha compiuto sforzi per diversificare le sue relazioni commerciali e espandersi nei nuovi mercati di esportazione. Tuttavia, il “decennio perduto” ha lasciato un segno che ancora oggi influenza la politica economica giapponese.
Sopravvivere alla deflazione…
Negli ultimi anni, il Giappone ha lottato con una deflazione persistente. Dalla seconda metà del 2015, la variazione annuale dell’Indice dei prezzi al Consumo (IPC) è rimasta costantemente al di sotto dell’obiettivo del 2%, spingendo la Banca del Giappone a implementare misure monetarie straordinarie e ultra-espansive, come possiamo vedere nel grafico sottostante (Figura 1).
Il Giappone ha introdotto per la prima volta, nel 2000, il quantitative easing (QE), che prevede l’acquisto da parte della Banca centrale dei titoli di Stato, per iniettare liquidità nell’economia al fine di contrastare la deflazione interna. Lo strumento fu poi ripreso anche a partire dal 2010. Oltre al QE, per dare impulso al credito, nel 2013 il governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda, ha abbassato ulteriormente il tasso di riferimento al -0,1%, portandolo in territorio negativo. I tassi di interesse della Banca Centrale hanno un impatto più forte sull’estremità breve della curva dei rendimenti. Di fronte alla necessità di introdurre una misura espansiva aggiuntiva per controllare anche l’estremità lunga della curva dei rendimenti dei titoli di Stato, il Giappone ha deciso di utilizzare un altro strumento a sua disposizione: il controllo della curva dei rendimenti o, in inglese, Yield Curve Control (YCC). Il YCC prevede essenzialmente di fissare un rendimento a scadenza target per i titoli di Stato decennali e consentire che si muova all’interno di un range specifico. Se il rendimento a scadenza supera il limite superiore del range, la Banca del Giappone interviene con acquisti mirati di titoli di Stato per riportare il rendimento all’interno del range desiderato. La stessa cosa viene fatta al contrario quando il rendimento scende al di sotto del limite inferiore.
Questo meccanismo di controllo della curva dei rendimenti dei titoli di Stato si è dimostrato solo parzialmente efficace nel stimolare l’economia ed è stato sostenibile fino a pochi mesi fa, poi qualcosa è cambiato.
Cosa succede se l’inflazione arriva inaspettatamente?
Come ormai è noto a tutti, il 2022 ha riportato qualcosa che era stato assente per anni nelle economie dei paesi sviluppati: l’inflazione. A causa degli shock delle catene di approvvigionamento, legati alla pandemia di Covid-19 e, soprattutto, al conflitto tra Russia e Ucraina, i prezzi delle materie prime hanno subito un’impennata storica in un periodo molto breve. Questo tipo di inflazione, causato dalla carenza di offerta, si è riversato sui prezzi al consumo, costringendo le banche centrali ad aumentare rapidamente i tassi di interesse nel tentativo di domare le dinamiche dell’inflazione e riportarle verso l’obiettivo del 2% (Figura 2). È successo la stessa cosa in Giappone? Non proprio.Sebbene l’inflazione sia tornata dopo anni di livelli contenuti anche nella Terra del Sol Levante, la Banca del Giappone ha deciso di rispondere in modo piuttosto diverso rispetto agli Stati Uniti, all’Europa e al Regno Unito. Cosa ha fatto la Banca del Giappone per contrastarla? Beh, praticamente nulla.
Dopo anni di sofferenza a causa dell’inflazione estremamente bassa nonostante le politiche espansive, la Banca del Giappone ha scelto di non combattere l’impennata inflazionistica con la speranza di domarla a tempo debito e alla fine raggiungere il tanto agognato obiettivo del 2%.
E i mercati?
Come possiamo vedere dal grafico il mercato azionario giapponese ha registrato le migliori performance tra i paesi sviluppati dall’inizio dell’anno, raggiungendo livelli non visti dagli inizi degli anni ’90. Il Nikkei 225, al momento della stesura di questo articolo, registra un rendimento dall’inizio dell’anno del 28,29% nella valuta locale.
Quali sono state le cause di questo rally? Principalmente, due fattori hanno contribuito.
In primo luogo, il differenziale dei tassi di interesse tra il Giappone e gli Stati Uniti (attualmente al -5,6%) che hanno portato a una significativa svalutazione dello Yen rispetto al dollaro statunitense e ad altre valute come l’Euro e la Sterlina. Di conseguenza, gli asset giapponesi sono diventati più economici per gli investitori non basati sullo Yen, portando a un forte afflusso di capitali dall’estero.
Il secondo fattore è legato alle valutazioni fondamentali delle azioni. La nostra analisi indica che all’inizio del 2023, i valori standardizzati a 36 mesi del rapporto price-to-book (P/B) e del rapporto price-earnings (P/E) erano al di sotto della media storica di una deviazione standard, rendendo la classe di attivo interessante per gli investitori (Figura 4).
Cosa sta accadendo ora?
Dopo mesi di osservazione, la Banca del Giappone sembra pronta a intraprendere azioni per adeguare la sua politica monetaria ultra-espansiva. Negli ultimi mesi, l’inflazione in Giappone ha raggiunto livelli superiori al 4%, con la componente core, che esclude i prezzi di alimentari ed energetici, che non mostra segni di rallentamento (Figura 1). L’aumento del costo della vita ha messo pressione sui salari nominali, che, fino a maggio 2023, sono cresciuti dell’1,8% rispetto all’anno precedente. Questo ha contribuito a preservare il potere d’acquisto dei cittadini, trasformando gradualmente l’inflazione, guidata dall’offerta del 2022 in un’inflazione guidata dalla domanda, nonostante un leggero ma continuo calo dei salari reali (-1,2% anno su anno a maggio 2023).
La svalutazione dello Yen ha anche avuto un impatto negativo sulla bilancia commerciale, con le importazioni in calo del 12,90% rispetto a maggio 2022. Preoccupato per il rischio di un rialzo dei tassi, il mercato ha iniziato a testare il limite superiore del +0,5% definito dal YCC sui titoli di Stato decennali, mettendo pressione sul nuovo governatore della Banca del Giappone, Kazuo Ueda. In risposta, l’Istituto ha annunciato di recente un allentamento della sua politica di controllo della curva dei rendimenti, espandendo il range per il movimento del rendimento a scadenza decennale, da ±0,5% a ±1,0%, al fine di alleviare le pressioni dagli investitori (Figura 5). Ma non è tutto, perché Ueda ha anche discusso apertamente della possibilità di alzare i tassi di interesse nel prossimo futuro, che sono stati costantemente negativi per anni, ma non prima di essere sicuro che l’obiettivo di inflazione del 2% del Giappone sia stabile e sostenibile.
Cosa aspettarsi dai mercati?
Vista la direzione della politica monetaria, le prospettive per i titoli di Stato giapponesi non sembrano rosee. Il rilassamento del YCC e il cambiamento nelle aspettative riguardo a possibili futuri rialzi dei tassi non sono di buon auspicio per i titoli giapponesi nel breve e medio termine. Il rendimento decennale ha recentemente superato il livello di resistenza del +0,5%, attestandosi attualmente al +0,646%, il valore più alto dal 2014 (Figura 4).
Per quanto riguarda le azioni, la situazione è leggermente diversa. Nonostante il rally nel 2023 e il relativo peggioramento delle valutazioni, riteniamo che possa ancora esserci un valore nel breve termine. La crescita attesa del PIL in Giappone, dello 0,3% per il terzo trimestre del 2023 e dello 0,2% per il quarto trimestre del 2023, tiene lontane le preoccupazioni di una recessione. Inoltre, le fluttuazioni delle performance degli indici azionari giapponesi nell’ultimo decennio indicano che il Giappone rimane relativamente sottopesato in molti portafogli istituzionali. Potrebbe quindi esserci un ritardo negli afflussi che potrebbero generare ulteriore inerzia positiva per la classe di attivo nel breve termine.
Lo yen, che negli ultimi mesi è stato una scelta ovvia come valuta di finanziamento per i carry trade, è destinato a sperimentare un trend rialzista di apprezzamento relativo rispetto ad altre valute, che potrebbe essere caratterizzato da significativa volatilità.
Attualmente, il differenziale dei tassi d’interesse tra lo yen e il dollaro statunitense non solleva preoccupazioni, ma un potenziale cambiamento nella situazione dei tassi di interesse giapponesi renderebbe lo yen meno attraente come valuta di finanziamento, alterando così gli equilibri di liquidità all’interno del sistema finanziario con potenziali ripercussioni marginali sugli asset rischiosi che oscurano le prospettive a medio termine.
Riteniamo che il miglior approccio sia quello di rimanere prudenti e continuare a mantenere un portafoglio ben diversificato.
Davide Petrella ricopre il ruolo di Portfolio Manager in Moneyfarm. Ha conseguito un Master in Quantitative Finance presso il Politecnico di Milano e un Master in Fisica all’Università di Roma, La Sapienza. Davide ha iniziato la sua carriera in Anima Sgr nel 2017 come Assistant Portfolio Manager nel team multi-asset per poi passare in Allianz Italia nel team ALM & Strategic Asset Allocation. Da gennaio 2022 a gennaio 2023 ha lavorato come Quantitative Analyst nella Fixed Income Boutique di Vontobel Asset Management a Zurigo, lavorando a stretto contatto con i Portfolio Manager per costruire soluzioni quantitative di front-office per la boutique.
*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.