La settimana scorsa ci ha ricordato che, in economia, fare previsioni per il futuro è complicato – ma anche interpretare il passato non è sempre così semplice.
Il Bureau of Labour Statistics degli Stati Uniti ha pubblicato il consueto rapporto mensile sui Non-farm Payrolls, ovvero i dati sull’occupazione nel settore non agricolo. Si tratta di uno degli indicatori macroeconomici più seguiti negli Usa, e di un elemento chiave nelle discussioni sulla politica dei tassi d’interesse.
Il report di luglio ha registrato una crescita dell’occupazione leggermente sotto le attese, ma la vera sorpresa sono state le revisioni al ribasso – piuttosto marcate – dei dati di maggio e giugno. Nel grafico qui sotto sono riportati i dati mensili aggiornati, messi a confronto con le stime iniziali fornite dagli economisti contattati da Reuters.
Perché è importante? Innanzitutto, perché lascia intendere che il mercato del lavoro statunitense non fosse così solido come si era creduto finora. Non si può certo dire che versi in cattive condizioni: anche dopo le revisioni, l’economia continua a generare nuovi posti di lavoro, il tasso di disoccupazione (vedi grafico sotto) rimane basso e la crescita salariale si mantiene solida. Ma sembra che il rallentamento sia più rapido di quanto si potesse immaginare solo una settimana fa.
E questo ci porta ai tassi di interesse. I dati sul mercato del lavoro sono tra gli elementi principali che guidano le decisioni delle banche centrali. La settimana scorsa, la Federal Reserve ha deciso di lasciare invariati i tassi, con un voto di 7 a 2.
Negli Stati Uniti, i voti contrari alle decisioni sui tassi sono relativamente rari. Gran parte della motivazione dietro la scelta di mantenere invariati i tassi è stata attribuita all’incertezza legata all’impatto delle tariffe sull’inflazione. Ma probabilmente anche la resilienza apparente dell’economia ha giocato un ruolo decisivo.
Se il comitato della Federal Reserve (Fed) che decide sulla politica monetaria avesse avuto a disposizione i dati rivisti sul lavoro, avrebbe preso una decisione diversa? Non possiamo saperlo, ma è certo che gli investitori hanno reagito iniziando a prezzare con maggiore convinzione un taglio dei tassi a settembre.
Pil, inflazione e taglio dei tassi
Il report sul lavoro non è stato l’unico dato macro rilevante della scorsa settimana. È stato pubblicato anche quello sul Pil del secondo trimestre. Il dato principale è stato solido, con una crescita del 3%, ma quelli sul commercio estero sono molto volatili a causa delle politiche commerciali. Gli investitori si stanno quindi concentrando di più sulla crescita della domanda interna, che continua a rallentare: nel secondo trimestre del 2025 è scesa all’1,2% (vedi grafico sotto).
E l’inflazione? Lo scenario resta incerto. Esistono numerosi indicatori, ma il messaggio di fondo è piuttosto coerente: l’inflazione è ancora sopra l’obiettivo del 2% della Fed, oscillando tra il 2% e il 3%, e potrebbe addirittura accelerare. Una parte di questa dinamica può essere attribuita ai dazi, che spingono i prezzi verso l’alto. È anche il motivo per cui la maggior parte dei membri della Fed ha votato per lasciare i tassi invariati.
Tuttavia, si potrebbe sostenere che le tariffe rappresentano un aumento dei prezzi una tantum, e che le banche centrali dovrebbero guardare oltre. È l’approccio sostenuto dal governatore della Fed Christopher Waller, che ha votato a favore di un taglio dei tassi, e che lo stesso presidente Jerome Powell aveva già espresso lo scorso marzo – prima del cosiddetto ‘Liberation Day’.
Tutto ciò sembra rafforzare l’ipotesi di un taglio dei tassi a settembre. Il mercato del lavoro è un po’ più debole del previsto, la domanda interna rallenta, e l’inflazione non è esattamente dove la Fed vorrebbe. Anche se le incertezze sui dazi non sono del tutto sparite, ci aspettiamo comunque almeno un taglio di 25 punti base il mese prossimo.
Utili anche gli utili
Passiamo ora alle trimestrali, concentrandoci ancora una volta sugli Stati Uniti. Anche in uno scenario macro incerto, le aziende americane sembrano tenere bene. Secondo i dati di FactSet, oltre l’80% delle società dell’S&P 500 che ha già pubblicato i risultati ha riportato utili superiori alle attese, e il 79% ha superato le stime sui ricavi. Si tratta di una percentuale superiore alla media storica, e aiuta a spiegare la buona performance dell’azionario nel secondo trimestre.
Guardando più nel dettaglio, i dazi hanno avuto un impatto minore di quanto temuto inizialmente. Il grafico qui sotto mostra il rapporto tra revisioni al rialzo e al ribasso sugli utili da parte degli analisti. Le stime sugli utili per gli Usa (la linea scura nel grafico qui sotto) erano crollate in aprile dopo gli annunci sui dazi. Ma dopo una fase di trattative e assestamento, diverse aziende hanno segnalato che l’impatto potrebbe essere più contenuto del previsto, portando a una revisione al rialzo delle stime.
Un quadro variegato
Questo andamento migliore del previsto solleva alcune domande. Le tariffe avranno davvero un impatto minore del previsto? Oppure si tratta solo di una questione di tempistiche, e gli effetti si vedranno più avanti, quando i regimi tariffari si stabilizzeranno? E, infine, in che misura riusciranno le aziende ad assorbire i costi più alti, evitando di scaricarli sui consumatori?
Le trimestrali del secondo trimestre offrono spunti interessanti, in particolare sul fronte della redditività aziendale. Tra le aziende che hanno già pubblicato i risultati, si osserva un incremento dei margini su base annua, che ha sostenuto una crescita a doppia cifra degli utili.
Ma dietro i titoli positivi, il quadro è più complesso: tre settori hanno registrato un’espansione dei margini (finanziari, tecnologia e servizi di comunicazione), mentre sette settori hanno riportato margini in calo (tra cui beni di consumo, sanità ed energia). Questo indica che alcune aree dell’economia sono ancora sotto pressione.
In sintesi, le aziende americane continuano a registrare risultati solidi nonostante l’incertezza politica e macroeconomica, un elemento che ha contribuito a sostenere l’azionario.
Tuttavia, i guadagni si sono concentrati soprattutto tra le grandi aziende tecnologiche e i giganti dei servizi finanziari. E sebbene gli utili siano in generale superiori alle attese, il calo dei margini in alcuni settori lascia intendere che gli effetti di un’economia in rallentamento – e di un contesto politico incerto – si stiano già facendo sentire in diverse aree del mercato.
*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.