Nel 2025 il dollaro è stato uno dei temi più scottanti del dibattito finanziario e l’anno che si sta per aprire non si preannuncia diverso. Dopo anni caratterizzati da un dollaro forte rispetto alle altre valute globali, nel primo semestre dell’anno la divisa statunitense ha subito un calo improvviso e marcato: circa l’11% contro un paniere di valute principali, la peggiore performance semestrale dalla fine degli anni ’70. Questo ribasso ha portato in auge la domanda che ciclicamente torna ogni decennio: sta veramente finendo l’egemonia del dollaro?
Un sondaggio Reuters di metà 2025 mostra che oltre l’80% dei Foreign exchange strategist (FX – professionisti specializzati nell’analisi dei mercati valutari e nelle strategie di investimento) prevede un ulteriore indebolimento della valuta, indicando il debito pubblico crescente e la nuova instabilità commerciale come fattori di rischio principali. Ad aprile 2025, durante la correzione dei mercati azionari Usa, il dollaro ha perso terreno invece di rafforzarsi, in controtendenza con il comportamento storico da “valuta rifugio”.
Tutti questi sviluppi spiegano perché l’andamento del dollaro sia uno dei maggiori temi di dibattito da parte degli investitori globali. Ma come si spiega l’apparente debolezza del dollaro nel 2025? Cosa potremmo aspettarci nel 2026? E soprattutto, è vero che la dinamica degli ultimi mesi potrebbe essere il segno di una crisi più profonda, in grado di mettere in questione il ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale?
Perché il ciclo è cambiato?
Nel 2022 e 2023 il valore del dollaro rispetto ad altre valute è stato molto elevato, sostenuto da alti tassi d’interesse e da una performance economica americana superiore al resto del mondo. A inizio 2025 lo scenario ha iniziato a cambiare. E non per un singolo evento traumatico, ma per una serie di fattori ciclici che, sommati tra loro, hanno spinto la valuta statunitense verso un nuovo equilibrio.
Innanzitutto, ci sono state crescenti speculazioni di un affievolimento di quello che potremmo chiamare “l’eccezionalismo americano”, ovvero la netta sovra-performance dell’economia Usa rispetto alle altre economie sviluppate. L’inflazione ha iniziato a rientrare, la crescita si è stabilizzata su livelli più ordinari, e il vantaggio competitivo che aveva reso gli Usa la meta preferita dei capitali internazionali si è gradualmente ridotto. Nel 2025, con l’inflazione in calo, la Federal Reserve ha iniziato a tagliare i tassi in modo più marcato della Banca centrale europea. Questi fattori hanno ridotto il differenziale di rendimento tra dollaro ed euro, erodendo uno dei principali fattori che avevano sostenuto l’ascesa del biglietto verde.
A pesare sul valore del dollaro è stata anche la politica fiscale americana. Nel 2025, il Congresso ha approvato un nuovo pacchetto di spesa da oltre 3.300 miliardi di dollari, mentre la Casa Bianca ha riacceso i toni protezionisti, con nuove minacce tariffarie e un ritorno a dinamiche commerciali più conflittuali. Secondo un sondaggio Reuters, per il 37% degli analisti FX queste tensioni commerciali sono diventate il principale motore delle oscillazioni del dollaro.
Nel frattempo, anche il ciclo che aveva sostenuto l’appetito per il dollaro si è indebolito. Da un lato, il boom tecnologico che aveva attratto enormi capitali e investimenti verso Wall Street ha gradualmente perso inerzia. Dall’altro, dopo il Liberation Day del 2 aprile in cui il presidente americano Donald Trump ha annunciato una massiccia imposizione di dazi sulle importazioni scatenando una ‘guerra’ commerciale, i mercati hanno registrato importanti vendite di azionario e obbligazionario Usa. Ciò ha portato al calo del dollaro in un momento in cui avrebbe dovuto rappresentare una protezione per gli investitori. Di conseguenza, i grandi flussi internazionali si sono ridotti e gli investitori hanno iniziato a proteggersi maggiormente dal tasso di cambio mentre le posizioni “short” sul dollaro sono cresciute.
Infine, sullo sfondo si muove la voglia di diversificazione. Sempre più Paesi di mercati emergenti hanno cominciato a usare valute alternative negli scambi commerciali. Secondo le stime più recenti, oltre la metà delle transazioni intra-Brics viene oggi regolata in renminbi (la valuta emessa dalla Banca popolare cinese). Paesi come Cina, Russia, Turchia, ma anche Emirati Arabi e Argentina, stanno sperimentando accordi bilaterali in moneta locale, cercando spazi di autonomia fuori dal perimetro del dollaro.
Se questi fattori hanno sicuramente pesato sulla valutazione del dollaro e continueranno a farlo nel breve e nel medio termine, crediamo sia presto per trarre conclusioni definitive. Il ritracciamento del dollaro non equivale a una frattura strutturale. Il 2025, più che l’inizio di un declino, sembra una fase fisiologica di “normalizzazione”.
Ma esiste davvero un’alternativa?
Per parlare seriamente di un possibile offuscamento del ruolo del dollaro, bisognerebbe prima rispondere a una domanda: cosa potrebbe realisticamente sostituirlo? Per il momento, la risposta è semplice: al momento non emergono alternative che possano svolgere un ruolo paragonabile.
Il dollaro non è solo il prezzo di una valuta: è ‘l’impianto idraulico’ della finanza mondiale. È la lingua franca del sistema. I dati mostrano quanto sia profondo questo radicamento. Secondo la Federal Reserve, il 58% delle riserve valutarie ufficiali nel mondo è ancora detenuto in dollari. Per confronto: l’euro si ferma attorno al 20%, il renminbi cinese a poco più del 2%. È vero che il dollaro ha perso terreno rispetto al 2001, quando rappresentava il 72% delle riserve globali. Ma resta saldamente il punto di riferimento. E persino Paesi sotto sanzioni americane, come la Russia, continuano a mantenere significative riserve in dollari.
Per quanto riguarda le opzioni finanziarie a basso rischio e il mercato globale dei titoli di Stato, il sistema obbligazionario Usa è semplicemente senza rivali. I titoli del Tesoro americano (Treasuries) continuano a essere percepiti come liquidi e sicuri. Ad oggi, oltre 9.000 miliardi di dollari di debito federale, pari al 32% dell’emissione complessiva, sono in mano a investitori esteri. Nei momenti di stress, le banche centrali globali si affidano a operazioni finanziarie come swap e repo in dollari per mantenere stabilità: nel 2008 furono attivati 585 miliardi di dollari in swap; nel 2020, durante la pandemia, 450 miliardi. Nessun’altra valuta ha strumenti simili. L’area euro, ad esempio, non dispone di un asset “sicuro” comune paragonabile ai Treasury: l’emissione di debito congiunto europeo nel 2025 è arrivata a malapena a 700 miliardi di dollari, una goccia rispetto ai 28.000 miliardi del debito Usa.
Inoltre, il dollaro resta la valuta-veicolo del commercio globale. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), è presente in circa l’89% di tutte le operazioni sul mercato valutario.
Il petrolio, il gas e gran parte delle materie prime sono ancora prezzati in dollari. Negli scambi americani, il dollaro è usato nel 96% dei casi; in Asia-Pacifico nel 74%; nel resto del mondo circa il 79%. Persino sulla piattaforma SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), il 50% dei pagamenti transfrontalieri avviene in dollari. una quota che sale al 60% se si escludono i flussi intra-UE. In breve: quasi tutte le valute sono scambiate con dollari, e gran parte della finanza internazionale continua a ruotare attorno al biglietto verde.
Oltre ai dati grezzi, c’è una dimensione più sfuggente ma decisiva: la fiducia degli investitori nelle istituzioni Usa e nel dollaro stesso, che non è stata scalfita (se non temporaneamente) nemmeno dal Liberation Day. Il dollaro è diventato una convenzione globale perché offre una combinazione unica di tre elementi: liquidità, rendimento e stabilità istituzionale. Nessun’altra valuta al momento offre questo mix.
L’euro, nonostante il peso dell’economia UE, resta frenato da una governance politica frammentata e dall’assenza di un mercato obbligazionario unitario. I renminbi cinesi sono soggetti a pesanti controlli sui capitali, scoraggiando gli investitori globali. Persino “concorrenti” come l’oro o le criptovalute non reggono il confronto: l’oro non offre rendimento né praticità nei pagamenti, mentre gli asset digitali sono ancora troppo volatili, marginali o, paradossalmente, ancorati al dollaro stesso.
Le tensioni geopolitiche, infine, possono rafforzare ulteriormente il dollaro. Quando scoppiano crisi in Medio Oriente, tensioni in Asia o timori pandemici, gli investitori si rifugiano nei Treasury e nella liquidità in dollari. È una dinamica controintuitiva ma solida: più il mondo è incerto, più il dollaro acquista forza.
Per tutte queste ragioni, parlare oggi di “fine della supremazia del dollaro” è più un esercizio intellettuale che una possibilità concreta. Un dollaro più debole non è un dollaro instabile. Può perdere valore, ma (almeno nel breve termine) non il suo ruolo al centro del sistema finanziario.
Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.
Le proiezioni di rendimento non sono un indicatore affidabile delle performance future. Le opinioni espresse qui non devono essere interpretate come raccomandazioni, consigli o previsioni. Se non sei sicuro che investire sia la scelta giusta per te, ti consigliamo di consultare un consulente finanziario.
*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.





