Non è iniziata nel migliore dei modi l‘annuale conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP) attualmente in corso a Baku. Donald Trump ha vinto le elezioni negli Stati Uniti al grido di “Drill, baby, drill” (trivella, baby, trivella), supportato da una piattaforma che sicuramente non mette la lotta al cambiamento climatico in cima alla lista delle preoccupazioni.
Se gli Stati Uniti si dovessero tirare fuori dagli Accordi di Parigi, ovvero il trattato che vincola giuridicamente i suoi firmatari affinché agiscano per combattere i cambiamenti climatici, sarebbe la terza marcia indietro della storia del Paese rispetto ad altrettanti grandi trattati internazionali sul clima. Niente di nuovo sotto il sole (o la cortina di CO2).
Per fortuna, la lotta al cambiamento climatico non è solo un affare per le diplomazie. Come ogni anno, la conferenza COP, che quest’anno tiene la sua 29esima edizione, fa il punto sulle moltissime iniziative messe in atto da governi, organizzazioni internazionali e privati. L’obiettivo resta sempre quello di registrare qualche piccolo passo avanti in una sfida dove tutti i progressi sono insufficienti e necessari allo stesso tempo.
Quest’anno, l’iniziativa che merita maggiore attenzione è l’accordo per l’attuazione dell’Articolo 6.4 del trattato di Parigi che stabilisce un mercato unico, indipendente e globale per i carbon credit (o crediti di emissione). L’accordo è stato il frutto del lavoro diplomatico che si è svolto dietro le quinte negli ultimi tre anni sotto la regia dell’ONU.
I negoziatori alla COP29 hanno ratificato un quadro chiave per la creazione del nuovo mercato, che sarà regolato da un organo delle Nazioni Unite. Quando questo mercato sarà operativo, potrebbe sbloccare miliardi di dollari di finanziamenti e restituire fiducia nei carbon credit, finiti sotto il fuoco delle critiche negli ultimi anni.
Come funzionano i mercati per i crediti di emissione
L’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi è uno dei più importanti del trattato. Questo perché è l’unico che offre ai governi e ai privati gli strumenti per finanziare a livello internazionale progetti in modo da rispettare i propri target di riduzione delle emissioni. Il cuore dell’Articolo sono i commi 6.2 e 6.4, che istituiscono due mercati regolamentati per i crediti di emissione.
La logica di questo tipo di politiche basate sul mercato è piuttosto semplice. Il Paese A può finanziare un progetto nel Paese B per ridurre le emissioni o preservare l’ecosistema, ricevendo un credito di carbonio. Da un lato, dunque, il Paese B riceve un supporto economico e un incentivo per mettere in atto politiche virtuose, mentre il Paese A può utilizzare quel credito per compensare le proprie emissioni e raggiungere i propri obiettivi climatici.
Questo tipo di sistema ha il vantaggio teorico di mobilitare risorse dai Paesi più inquinanti (che spesso sono i Paesi sviluppati, che devono raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi) verso Paesi in via di sviluppo, che hanno meno risorse e incentivi per intraprendere i progetti.
Un secondo obiettivo teorico è quello di aumentare l’efficienza degli investimenti. Un’economia avanzata potrebbe trovare più efficiente finanziare progetti di riduzione in Paesi terzi piuttosto che investire ingenti somme nella filiera domestica per ottenere benefici ambientali limitati. Politiche di questo tipo hanno avuto una certa efficacia quando applicate in sistemi regionali o nazionali, dove un’autorità centrale emetteva i crediti (permessi per emettere, in questo caso) imponendo una loro periodica riduzione (un esempio è l’Emission Trading Scheme dell’Unione Europea).
A livello internazionale, dove manca un’autorità legislativa centrale in grado di imporre un tetto ai crediti concessi, questo meccanismo resta volontario e serve più che altro a favorire investimenti in progetti sostenibili.
Dubbi sull’efficacia delle iniziative volontarie
Fino a oggi, i crediti potevano essere scambiati e compensati nel sistema dell’accordo di Parigi solo in seguito ad accordi bilaterali tra stati (regolati dall’articolo 6.2). I progetti emersi negli scorsi anni hanno in qualche modo evidenziato le criticità del sistema. La più evidente è dovuta alla difficoltà di mettere in atto accordi bilaterali.
L’altra difficoltà riguarda l’integrità e l’efficacia di questi accordi. La Svizzera è stata uno dei Paesi più attivi nel mettere in piedi programmi di compensazione e, nel 2013, ha approvato il primo accordo bilaterale sotto l’egida dell’Articolo 6.2. Utilizzando risorse di una fondazione finanziata dagli importatori di petrolio, è stato creato un progetto per rinnovare la flotta di autobus elettrici a Bangkok, in Thailandia. La riduzione delle emissioni è stata dunque contabilizzata in Svizzera e ha contribuito al raggiungimento dei target della Confederazione. Ma, secondo i critici, il progetto di elettrificazione dei bus sarebbe comunque accaduto a Bangkok entro il 2030, e quindi la Svizzera avrebbe semplicemente acquistato il diritto di emettere di più senza effettivamente generare un impatto positivo sull’ambiente.
Il caso sopra è solo un esempio di come questa regolamentazione, spesso complessa, possa creare situazioni controverse che rischiano di minare la credibilità dell’intero sistema. Questo avviene soprattutto nel caso dei programmi di compensazione delle emissioni volontari che avvengono al di fuori degli accordi tra Stati. Questi accordi sono spesso iniziative autonome tra privati e che non richiedono il rispetto delle linee guida delle Nazioni Unite sulla qualità e la trasparenza.
Di fatto, i crediti vengono acquistati dalle aziende per perseguire obiettivi autoimposti di sostenibilità, compensando le proprie emissioni. Alcuni studi hanno messo in dubbio l’efficacia di queste iniziative (Net Zero, Carbon Removal and the Limitations of Carbon Offsetting – OurEnergyPolicy). Una revisione sistematica del 90% di tutti i crediti di compensazione nel mercato volontario del carbonio (VCM) ha stimato che “solo il 12% del volume totale dei crediti esistenti costituisce reali riduzioni delle emissioni.”
A causa del crescente scrutinio sulla qualità dei progetti e delle accuse di greenwashing, le aziende si sono gradualmente distanziate dal mercato dei crediti di emissione. Di conseguenza, la domanda e i prezzi sono diminuiti, in particolare per le compensazioni basate su progetti di rigenerazione forestale. Il prezzo dei carbon credit è andato a picco e il valore del mercato volontario del carbonio si è ridotto del 61% solo nell’ultimo anno, dopo aver raggiunto il picco nel 2022 a oltre 2 miliardi di dollari.
L’accordo di Baku
L’accordo di Baku sull’istituzione di un mercato globale dei crediti di emissione attraverso l’attuazione dell’Articolo 6.4 dovrebbe in parte porre rimedio a questi problemi.
Nell’accordo sono presenti regole per migliorare l’integrità dei mercati di carbon credit, comprese metodologie per la valutazione della qualità dei progetti. La partecipazione al mercato ONU dovrebbe rappresentare una garanzia di qualità dei crediti, che potrebbe riavvicinare le aziende e ravvivare la domanda, con la possibilità di vedere crescere il valore dei crediti e incentivare la riduzione delle emissioni. Inoltre, il fatto che il sistema non dipenda dalla partecipazione dei governi ne amplia ulteriormente l’attrattiva.
Tuttavia, i critici sottolineano alcune carenze. Gli standard si sovrappongono in gran parte ai Core Carbon Principles esistenti, ma mancano di metodologie specifiche per settore. Problemi tecnici irrisolti, come la pre-approvazione dei crediti e le misure per prevenire il doppio conteggio, potrebbero diventare barriere operative importanti. Seppur i promotori della conferenza abbiano annunciato che l’accordo di Baku sia sufficiente per far partire il mercato, secondo i critici mancherebbero ancora elementi per poter passare all’operatività.
L’inaugurazione di un mercato globale rappresenterebbe un passo avanti significativo per il sistema dei carbon credit volontari. Secondo il capo negoziatore alla COP29, il mercato potrebbe mobilitare circa 250 miliardi di dollari l’anno per progetti di riduzione delle emissioni. Un passo piccolo ma importante, considerati i 6.500 miliardi di dollari annui stimati a Baku come necessari per raggiungere gli obiettivi del trattato di Parigi.
Il futuro nella sfida tra Cina e USA
Ai margini della conferenza ha tenuto banco il tema del possibile impatto della vittoria dei repubblicani negli Stati Uniti, che hanno promesso in campagna elettorale di cancellare le politiche “verdi” di Biden.
Sarà necessario valutare la consistenza di queste promesse, considerando che molti dei programmi sotto accusa sono contenuti nell’Inflation Reduction Act, una norma che include diverse misure di politica industriale per supportare settori come quello delle auto elettriche. Promuovere queste industrie rientra ormai negli interessi strategici degli Stati. Ne sono un esempio le recenti tensioni commerciali legate al segmento dell’automotive tra Europa e Cina.
Al di là dei proclami elettorali, sviluppare queste nuove industrie (anche in campo energetico, come dimostrano gli investimenti della Cina nell’energia verde) diventa un’opportunità. Per citare le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, “coloro che cercano disperatamente di ritardare e negare l’inevitabile fine dell’era dei combustibili fossili cercano di trasformare l’energia pulita in una parolaccia. Perderanno. L’economia è contro di loro”.
Aspettando di vedere il governo statunitense alla prova, da un punto di vista diplomatico non si può sottovalutare il riposizionamento degli Usa. Ogni accordo significativo sul clima, incluso quello di Parigi, deve necessariamente passare per un’intesa tra Stati Uniti e Cina. A Baku, a rappresentare gli Usa è andato John Podesta, il negoziatore democratico con un mandato di fatto compromesso, creando un’opportunità diplomatica per Pechino.
La Cina oggi è non solo il Paese che emette di più, ma ha recentemente superato l’Europa anche nelle emissioni storiche (e presto supererà gli Stati Uniti). La Repubblica Popolare è più impegnata che mai nell’attuazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Negli ultimi anni, il Paese si è imposto come leader globale nell’energia rinnovabile, investendo miliardi in progetti verdi sia a livello interno che nei Paesi in via di sviluppo. Questa strategia non solo contribuisce a combattere il cambiamento climatico, ma rafforza anche la posizione economica e geopolitica cinese.
Le nazioni più povere, che cercano di abbandonare i combustibili fossili, guardano sempre più alla Cina come partner principale. Pechino, di converso, sta usando la diplomazia climatica per espandere la propria influenza economica, trovando nuovi mercati per le sue tecnologie verdi, come pannelli solari, veicoli elettrici e batterie. Questi settori sono diventati centrali per l’economia cinese, che ora punta a dominare il mercato globale delle tecnologie sostenibili.
Conseguenze sugli investimenti Esg di Moneyfarm
Dal punto di vista dei portafogli, seppur seguiamo con attenzione l’evoluzione del gioco diplomatico e valutiamo le conseguenze che potrebbe avere sui settori, ciò non cambia la nostra visione di lungo termine sugli investimenti Esg. Pensiamo che questo approccio agli investimenti resterà importante nel lungo termine e rimaniamo convinti che rappresenti una buona scelta non solo da un punto di vista etico, ma anche finanziario.
È importante ricordare che i nostri portafogli Esg non si focalizzano esclusivamente su investimenti legati alla transizione energetica, la cui performance di breve termine è più volatile e influenzata dalle decisioni politiche. Di seguito analizziamo gli obiettivi dei nostri portafogli Esg e gli effetti di un potenziale cambiamento di rotta del governo Usa.
- Riduzione dell’esposizione ad aziende controverse. I portafogli Esg di Moneyfarm escludono aziende con controversie sociali (come violazioni dei diritti umani) o con elevata esposizione a ricavi da combustibili fossili. Tale approccio rimane slegato da un eventuale rallentamento della transizione energetica. In un contesto di potenziale de-regolamentazione, l’importanza di canalizzare gli investimenti privati lontano da settori negativamente impattanti per la società diventa ancora più rilevante.
- Riduzione dei rischi legati ai fattori di sostenibilità. I portafogli Esg di Moneyfarm considerano i rischi di sostenibilità degli Etf tramite l’analisi di Rating Esg, con l’obiettivo di ridurre l’esposizione ad aziende che potrebbero vedere i propri ricavi impattati dal phase-out dei combustibili fossili. I rischi di sostenibilità includono, ad esempio, quelli reputazionali, quelli legati alla difficoltà di gestire la transizione e rischi fisici, come le alluvioni che devastano l’economia di intere regioni, ormai all’ordine del giorno. Se è vero che, in un contesto dove la regolamentazione ambientale diventa più permissiva, le aziende più esposte ai combustibili fossili potrebbero tirare un sospiro di sollievo nel breve termine, la vasta gamma dei rischi di sostenibilità – non tutti relativi al piano regolamentare – continuerà ad attrarre investimenti.
- Incremento della quota di investimenti sostenibili. Gli investimenti sostenibili riguardano attività economiche che contribuiscono a obiettivi ambientali o sociali. A oggi, nei portafogli Esg di Moneyfarm, abbiamo scelto di non perseguire specifici interessi settoriali, ma di includere solo Etf con una maggiore esposizione ad aziende sostenibili. Abbiamo inoltre Etf su obbligazioni emesse da banche per lo sviluppo sostenibile e su Green Bond emessi da stati o aziende ad alto rating, volti a finanziare progetti che portano benefici ambientali. Tali asset class generalmente hanno un livello di volatilità estremamente inferiore rispetto agli investimenti in azionario tematico e quindi il rischio rimane contenuto, sia per la loro natura obbligazionaria, sia per la loro diversificazione, sia per il merito creditizio degli emittenti.
- Attivismo del gestore dell’Etf. L’esercizio attivo del diritto di voto per il supporto a risoluzioni Esg da parte degli asset manager può essere influenzato direttamente o indirettamente dall’azione e dal posizionamento dei governi. Lo abbiamo già osservato negli anni recenti, con una riduzione dell’attivismo da parte di alcune emittenti. Tuttavia, sarà nostro compito continuare a monitorare e integrare nelle nostre scelte di investimento il comportamento degli asset manager.
Anche se la tensione intorno al futuro dell’Accordo di Parigi ci preoccupa come cittadini, non modifica il nostro posizionamento di medio e lungo termine sui portafogli Esg.
*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.