Il 10 febbraio inizia ufficialmente il capodanno lunare, che segna l’inizio dell’anno nuovo in molti paesi asiatici. Entriamo nell’anno del drago, per essere precisi del “drago verde di legno” (da non confondersi con il drago di fuoco che dominerà l’anno 2036). Non siamo esperti dello zodiaco cinese (e in generale non ci affidiamo a esso per gestire i portafogli), ma da quanto possiamo capire in Asia il drago è un simbolo oltre alla libertà, di prosperità e risveglio. Che questo sia un auspicio per l’economia cinese, che da oltre due anni sta affrontando un rallentamento che sta minando alle fondamenta la percezione sullo stato di salute di Pechino?
Il Pil cinese è cresciuto lo scorso anno del 5,3% nel 2023, un livello irraggiungibile per la maggior parte dei paesi occidentali, ma che denota un calo deciso rispetto ai livelli pre-Covid e continua il trend di rallentamento dell’economia. Sotto la superficie sono poi scoppiate numerose crisi, come quella che ha riguardato il settore immobiliare e il settore bancario ombra, la crisi dei governi locali, il rallentamento della domanda interna e le spinte deflazionistiche. La performance economica si è tramutata in performance estremamente deludente anche sui mercati finanziari, con l’indice CSI 300 che ha perso oltre l’11% nel 2023.
Crescita annuale del Pil in Cina. Elaborazione Moneyfarm su dati Banca Mondiale.
Pur essendo un rallentamento dei livelli di crescita fisiologico, le problematiche economiche sono prese molto seriamente da Pechino, in quanto si teme che i problemi che stanno emergendo possano andare a minare il percorso di crescita di medio termine del Dragone. Pechino era considerata fino a poco tempo fa il fulcro dell’economia mondiale e oggi rischia di diventare il grande malato. Una crisi di percezione pericolosa per un Paese che prova a estendere la sua influenza geopolitica su metà del globo.
La narrativa sta cambiando in fretta. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e altri definiscono la Cina un “freno” per la crescita globale. E gli obiettivi ufficiali di crescita posizionati dal governo per il prossimo anno intorno al 5% vengono accolti con scetticismo. Recentemente Moody’s ha cambiato l’outlook del debito cinese (rating A1) da stabile a negativo. Il risultato ha immediatamente scatenato la campagna dei media cinesi, tesi a screditare l’autorevolezza dell’agenzia. Insomma, sembra che si stia creando un solco sempre più vasto tra i tentativi del governo di mantenere una narrazione di successo e la valutazione del paese da parte dei mercati e delle organizzazione internazionali. Al centro c’è un quadro oggettivo nel quale emergono problemi sistemici sempre più evidenti per un’economia da 19 trilioni di dollari chiamata per dimensioni e vocazioni a completare il percorso verso lo stato di superpotenza economica avanzata.
Quello che spaventa è la possibilità che il calo sia strutturale. Nel decennio che ha preceduto il 2021, la Cina ha registrato una delle più rapide crescite economiche globali, con una media annua del 6,7%. Adesso l’FMI prevede un calo graduale del tasso di crescita cinese, fino al 3,5% nel 2028, citando sfide come la debolezza della produttività e l’invecchiamento della popolazione.
Ma quale sono le ragioni di questo rallentamento? Quella che stiamo vedendo oggi è probabilmente una risposta strutturale alla fine di un’espansione senza precedenti del credito e degli investimenti nell’ultimo decennio. Per rispondere alla crisi globale del 2008 e 2009, il governo del Presidente Hu Jintao ha iniettato nell’economia liquidità e investimenti. L’amministrazione successiva guidata da Xi Jinping non ha frenato l’indebitamento, che se da una parte ha favorito la crescita di campioni nazionali in settori innovativi come l’industria avanzata e la tecnologia, ha finito per gonfiare in maniera più che proporzionale anche settori meno produttivi come quello immobiliare.
Il sistema finanziario cinese si trova ora nelle condizioni di non riuscire a garantire gli stessi livelli di crescita del credito degli anni precedenti, minando il controllo di Pechino sull’economia. Non solo, il tentativo del governo di limitare l’indebitamento per proteggere la stabilità finanziaria ha minato la fiducia in una fase dove l’economia già non se la passava troppo bene.
A questo si deve aggiungere una gestione della pandemia molto conservativa. La rigorosa politica zero-Covid, con restrizioni severe e una repressione delle imprese private, ha colpito le parti più vitali dell’economia. Ciò si è tradotto in una domanda interna fiacca, alimentando i timori di una spirale deflazionistica. La Cina affronta crescenti pressioni al ribasso sui prezzi, con una problematica opposto a quella affrontata dai governi occidentali. Il rischio di una spirale deflazionistica potrebbe portare a una riduzione della produzione, calo dei salari e aumento della disoccupazione. Stagnazione della produttività, politicizzazione della regolamentazione, invecchiamento demografico, disoccupazione giovanile e disparità economiche completano il mosaico di sfide.
Guardano avanti le sfide che il governo di Pechino deve affrontare per rilanciare la crescita sono numerose. La crisi immobiliare è forse il principale ostacolo. Il crollo delle vendite di case ha fatto saltare il modello di alcuni dei principali costruttori, che si sono trovati a fronteggiare crisi di liquidità e spesso vere e proprie insolvenze. La crisi ha contagiato il settore delle banche ombra, causando insolvenze e proteste diffuse. I governi locali, gravati dalle spese legate al Covid e dalle vendite di terreni in calo, stanno di conseguenza facendo fatica a finanziarsi.
La risposta a una domanda debole e una fiducia in calo dovrà necessariamente venire dal governo. Crediamo che l’approccio alla politica fiscale e monetaria nel 2024 sarà la variante decisiva. La Conferenza Economica Centrale ha tracciato una mappa di priorità, puntando su innovazione scientifica, domanda interna robusta, stabilità, sviluppo rurale e investimenti ecologici.
Se da una parte il fatto che la soluzione sia nelle mani del governo trasmette una certa tranquillità, viste le capacità materiali e la volontà del Partito Comunista di invertire la rotta, dall’altra lo scenario è ancora quello di un’economia caratterizzata da un settore privato non completamente in grado di camminare sulle proprie gambe. Non solo: le politiche industriali cinesi, cariche di fondi industriali, sovvenzioni statali e accesso privilegiato a tecnologie straniere, hanno creato problemi di sovraccapacità in settori chiave: un esempio di questo è la crescita dei settori “verdi” che stanno attirando moltissime risorse pubbliche e private facnedo alzare i sopracigli a Washington e Bruxelles. In tutta la Cina stanno nascendo nuove fabbriche che producono veicoli elettrici (EV), batterie e altri prodotti fondamentali per la transizione energetiva. Tuttavia, con un settore manifatturiero saturo e un consumo interno prossimo ai minimi storici, Pechino dovrà necessariamente provare a rivolgersi all’estero per assorbire questa produzione, con il rischio di aggravare le tese relazioni commerciali con le altre economie che stanno anche promuovendo le industrie nazionali e i posti di lavoro che producono molti di quegli stessi prodotti.
Insomma da una parte l’intervento arbitrario del governo avrà il difficile compito di evitare di creare un’economia più inefficiente, dall’altra oggi sembra l’unica soluzione percorribile per rivitalizzare la domanda interna. Un’eccessiva attenzione sulla crescita, piuttosto che sulle riforme strutturali, potrebbe però avere il risultato di acuire gli squilibri esistenti: la riduzione del ruolo del governo negli affari economici è necessaria per ripristinare la fiducia del settore privato e stimolare gli investimenti, ma a oggi è anche la principale leva che la Cina può usare per uscire dalla crisi.
Anche perché, in questa situazione economica incerta e fiaccata dalle crisi internazionali, gli investimenti esteri in Cina sono in caduta libera in calo del 19,5% a dicembre. Seppur una parte minoritaria di tutti gli investimenti, il dato mostra come persistono ancora dubbi sull’attrattività dell’ambiente commerciale cinese, gli stessi dubbi che hanno anche penalizzato il valore degli investimenti in tutti questi ultimi anni. Pensiamo che c’è il rischio che questo trend continui, nonostante gli interventi diretti del governo cinese per sostenere i listini, una novità recente che mostra la preoccupazione del governo riguardo al fatto che le performance negative possano minare la stabilità finanziaria attraverso i prodotti strutturati.
In sintesi, la Cina dovrà dimostrare di aver costruito un’economia in grado di camminare sulle proprie gambe. La partita è aperta ma le scelte politiche determinano se la Cina riuscirà a superare queste sfide e a riconquistare il suo status di motore dell’economia globale, cercando di bilanciare il sostegno alla crescita centralizzato con riforme strutturali lungimiranti in grado di creare un contesto economico capace di prosperare al di fuori del sostegno pubblico. Solo così il dragone continuerà a volare.
*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.