La saga del dollaro: dall’epica di frontiera alla cultura pop

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Le origini di un mito, a volte, si perdono nel tempo e nello spazio. Il mito del dollaro – al tempo stesso la valuta più diffusa al mondo, il brand più forte esistente e forse la fede laica più potente del nostro tempo – non nasce nelle isole boschive alla foce dell’Hudson né tra i prati impeccabili delle ville coloniali di Filadelfia. Le sue radici affondano invece negli altipiani innevati dell’Europa centrale.

Il suo antenato è il tallero boemo, una moneta coniata agli inizi del XVI secolo, in un’epoca di grandi sperimentazioni monetarie. I Conti di Schlick, in Boemia, sfruttarono l’argento appena scoperto nei giacimenti della valle di Gioacchino (dedicata a San Gioacchino, padre di Maria) per emettere una nuova moneta. La chiamarono, con una certa ambizione, Joachimstaler Guldengroschen, il “grande aureo della valle di San Gioacchino”. Promotori abili, i fratelli Schlick seppero far circolare questa moneta lungo le grandi rotte commerciali del tempo, dalle Fiandre alle foci del Danubio.

Nei mercati, quel nome impronunciabile venne presto abbreviato in thaler, e il thaler, passando di lingua in lingua, sarebbe diventato dollar. Per secoli circolò come una sorta di valuta europea ante litteram. È curioso pensare a questa storia come un mito originario: come se la globalizzazione fosse cominciata lì, tra le miniere e le fonderie di un piccolo villaggio boemo.

Negli Stati Uniti il dollaro prende forma nel 1792, quando il Congresso approva il Coinage Act e decide che la giovane repubblica deve dotarsi di una propria moneta. Non si trattò soltanto di un atto amministrativo, ma di un rito di fondazione: un gesto di emancipazione politica e psicologica dagli imperi europei. All’epoca l’America era un mosaico di valute improvvisate; il nuovo dollaro doveva essere un collante nazionale e, insieme, un sigillo di legittimità per l’autorità di Alexander Hamilton (uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti). Il potere di coniare moneta implica il potere di garantire il valore. Creare il dollaro significava creare fiducia; e creare fiducia significava, in fondo, creare governo.

Il dollaro come epica di frontiera

Ma la vera nascita culturale del dollaro non si trova in un decreto. Una moneta deve superare la prova del tempo, viaggiare, passare di mano in mano. E così, il mito del dollaro nasce nei racconti di frontiera, nei saloon fumosi dove un pezzo d’argento poteva comprare un cavallo, una notte in una stanza calda, a volte una vita nuova. Nelle cronache dell’Ottocento, il dollaro corre con i pionieri verso Ovest: tintinna nelle diligenze, scivola nei tavoli da gioco, viene sepolto in sacchetti di tela dentro custodie di fucili. È un’unità di misura del possibile. Se l’America è innanzitutto sinonimo di potenzialità incompiute, il dollaro diventa il simbolo contabile di questa possibilità infinita. 

La moneta diventa il motore immobile di un’umanità e una nazione in divenire, quella raccontata tra gli altri nella “Trilogia del dollaro” di Sergio Leone. Il dollaro non appare quasi mai fisicamente nei film: è un’assenza, e il movente. Il denaro è un sistema di desideri, non tanto perché compra, ma perché promette. E la frontiera americana, vasta e ancora senza forma, aveva bisogno proprio di una promessa tangibile: un disco d’argento.

Arrivano i dollari

Con gli accordi di Bretton Woods del 1944 (mentre il secondo conflitto mondiale è ancora in corso) il dollaro diventa la valuta cardine dell’economia mondiale e la principale moneta di riserva e di scambio internazionale. Tra le altre cose, viene deciso che il dollaro sia l’unica valuta convertibile direttamente in oro e che tutte le altre valute debbano fissare il proprio valore ancorandosi al dollaro.

Ma per aspettare che il dollaro diventi un mito globale bisogna arrivare al secondo Dopoguerra, quando giunge in Europa insieme alle sigarette Camel, ai viveri dei soldati, ai pacchi del Piano Marshall. Come scrisse il regista e attore Vittorio De Sica, ricordando quegli anni, “l’America non era un luogo: era un odore di cibo e libertà”. E cos’altro è il dollaro se non un odore di possibilità? 

Gli economisti parlano di “dominanza del dollaro” e di egemonia americana, leggendo in quegli anni la conclusione della lenta parabola di sostituzione della sterlina come valuta di scambio globale. Ma al di là dei modelli accademici, il fenomeno si misura in modo più semplice ed esperienziale: il dollaro è, ancora oggi, una delle valute più accettate a livello internazionale. In molte regioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina circola più delle valute locali; è la lingua franca dei mercati globali, la valuta che il mondo usa quando non sa di chi fidarsi.

Un biglietto da un dollaro può passare dalle tasche di un turista a Tokyo a quelle di un mercante a Lagos, fino al banco improvvisato di un venditore ambulante a Rio. E forse il paradosso decisivo è proprio questo: il dollaro continua ad avere valore perché può essere stampato e riprodotto. Ciò che lo rende prezioso non è la scarsità, ma la diffusione, l’infrastruttura di potere, fiducia, cultura e forza militare che lo sostiene. 

Icona pop

Dal secondo Dopoguerra in poi, il terreno è ormai pronto perché il dollaro assuma anche una dominanza simbolica e culturale, sostenuta tanto dal soft power quanto dall’hard power degli Stati Uniti. La moneta si trasforma così in un oggetto duplice: infrastruttura finanziaria e icona pop.

All’inizio degli anni ’80, Andy Warhol consacra definitivamente questo passaggio dedicando una serie di opere al simbolo “$”. “Making money is art, and good business is the best art”, dirà più tardi, chiarendo esplicitamente l’equazione tra creatività e capitalismo. Nei suoi quadri, il segno del dollaro esplode in colori brillanti come quelli usati per Marilyn Monroe o Elvis Presley, elevando il denaro allo stesso rango delle celebrità americane.

Il dollaro, nelle mani di Warhol, diventa un logo: il più riconoscibile dell’Occidente. Il capitalismo si trasforma in estetica, il consumo è elevato a linguaggio visivo, il dollaro diventa un’icona pop: è divertente, è desiderabile, è kitsch. È anonimo e popolare, diffuso ed esclusivo, democratico e crudele allo stesso tempo.

Il dollaro pulsa nelle vene del capitalismo

Ma è nei decenni successivi all’abbandono del gold standard, con la fine della convertibilità del dollaro in oro, che il mito del biglietto verde, intrecciato a quello del consumismo e dell’edonismo americano, assume una nuova forma, più obliqua e sfaccettata. Negli anni ’80 il dollaro smette di essere soltanto una valuta: diventa uno stile di vita. È il decennio in cui il simbolico divora il reale, e nessun simbolo divora la realtà con la stessa voracità del dollaro.

New York vibra come una centrale elettrica. Il capitalismo riscrive la propria estetica e la esibisce senza pudore: il dollaro non è più un mezzo ma una meta. Una frontiera in sé, un invito permanente a uscire e prendersi ciò che si desidera: go and get it. “Il mondo è tuo”, come proclama l’Al Pacino di Scarface, mentre sacchi di banconote vengono contati da macchine automatiche nelle filiali di qualche banca opaca di Miami.

Il denaro diventa così la grammatica visiva di un’intera epoca: attraversa musica, moda, cinema, pubblicità. Il suo verde assume una valenza ideologica, come il rosso ormai sbiadito del mondo sovietico al tramonto. Dai grattacieli di Wall Street ai marciapiedi del Bronx dove nasce la cultura hip hop, con le sue catene d’oro che riproducono l’effigie del “$”, il dollaro costruisce la propria leggenda anche attraverso la celebrazione dell’arte. Non è più il movente assente del vecchio West, ma una coreografia: pesa, occupa spazio, si può lanciare, contare, impilare, abbracciare.

E anche fino ai giorni nostri, seppur lontani dalla celebrazione quasi ingenua degli anni ’80, il mito espresso come immagine plastica non ha perso il suo potere evocativo e simbolico. Basti pensare agli scagnozzi di Walter White (nella serie Breaking Bad) che si rotolano su un letto di contanti in una delle scene più iconiche della televisione contemporanea; oppure al Joker anarchico di Christopher Nolan (Il cavaliere oscuro, 2008) che dà fuoco a una piramide di banconote, certificando la propria follia nel gesto più dissacrante possibile: “Non è una questione di soldi. È una questione di mandare un messaggio”. Una sorta di rovesciamento del Joker di Tim Burton, che nel 1989 gettava banconote dalla cima di un carro allegorico. E poi c’è lo youtuber Mr. Beast, che proprio su YouTube ha costruito uno dei più grandi imperi mediatici del mondo regalando pacchi di dollari ai vincitori dei suoi giochi o a sconosciuti incontrati per strada. 

In dollar we trust

La moneta è una narrazione: un costrutto sociale prima ancora che uno strumento economico. Aristotele lo aveva già intuito quando scriveva che “la moneta è nata per convenzione (nomisma)” e che “non esiste per natura ma per legge”. Una valuta è un segno puro, la cui accettazione universale dipende da un accordo collettivo sancito dall’autorità dello Stato.

Dopo l’abbandono del gold standard nel 1971, questa verità è diventata evidente. Una banconota è, letteralmente, “un pezzo di carta”, il cui valore non è garantito da metallo prezioso ma dal consenso sociale e politico che la sostiene. Un dollaro continua a valere perché milioni di persone credono che valga, e perché il governo degli Stati Uniti ne assicura la validità. Senza fiducia, senza infrastruttura politica, senza potere, perfino il biglietto verde perderebbe la sua magia.

È per questo che, al di là delle svalutazioni cicliche, il successo del dollaro si fonda anche sul suo valore immaginario, accumulato nel tempo e ormai indistinguibile dalla forza militare, economica e culturale degli Stati Uniti. Il dollaro incorpora al tempo stesso il sogno americano e l’influenza geopolitica di una superpotenza. Tenere un dollaro tra le mani significa maneggiare non soltanto una valuta, ma un patto sociale: la promessa che quel pezzo di carta rappresenta, in ultima istanza, gli interessi e la volontà degli Stati Uniti. Su ogni banconota, quasi a consacrare questo patto, campeggia la scritta “In God We Trust”, cioè “abbiamo fede in Dio”. Sarà anche così per diverse persone. Ma il dollaro continua a essere un riferimento.

Le considerazioni precedenti sono di natura culturale e non riflettono un giudizio sull’andamento futuro dei mercati finanziari.

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