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Investire secondo principi sostenibili: dalla teoria alla pratica

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⏳ Tempo di lettura: 9 minuti

In questo articolo, il giornalista britannico David Stevenson, in una collaborazione speciale con Moneyfarm, fa chiarezza nel rumore che circonda gli investimenti ESG – un ambito diventato inutilmente complesso e controverso – riportando l’attenzione su ciò che conta davvero.

Gli investimenti ESG sono diventati inutilmente complicati e controversi. Una parte di ciò che rientra nell’ESG è semplice buon senso; molto può davvero avere un impatto, ma il linguaggio e il gergo spesso creano confusione.

Qualche anno fa, sembrava che ogni gestore di fondi al mondo lanciasse un nuovo fondo ESG – cioè fondi che selezionano le aziende in base a criteri ambientali, sociali e di governance – mentre i board aziendali ovunque istituivano sottocomitati dedicati a questi temi. Emergenza climatica, uguaglianza, diversità e impatto sono diventati parole chiave di una grande “risveglio” aziendale (come l’hanno definito alcuni critici).

Qualche anno dopo è arrivato l’inevitabile contraccolpo, che ora sta travolgendo l’intero mondo della finanza. Le critiche più accese arrivano dagli Stati Uniti, dove termini come DEI (Diversità, Equità e Inclusione) ed ESG sono sempre più usati in senso dispregiativo da una parte della destra politica.

Per molti osservatori, tutto ciò si sarebbe potuto evitare. Il problema è stato soprattutto un eccesso di gergo: troppi concetti e ambizioni, anche molto diversi tra loro, sono stati compressi dentro un’unica etichetta, ESG, senza la chiarezza e la distinzione necessarie.

Per essere chiari, gran parte di ciò che rientra nell’ESG ha perfettamente senso: qualsiasi investitore orientato al lungo periodo dovrebbe avere a cuore la sostenibilità e una solida governance aziendale (la G di ESG). 

Se si possiedono immobili – ad esempio attraverso un REIT, ovvero un fondo immobiliare quotato che investe e gestisce patrimoni immobiliari generando reddito da locazione – ridurre i consumi energetici e limitare l’impatto ambientale (la E) è semplicemente buon senso: non serve un’etichetta ESG per capirlo.

Allo stesso modo, costruire una forza lavoro soddisfatta, stabile e inclusiva di competenze e background diversi – anche attingendo dalla comunità locale – è vantaggioso per l’azienda stessa (la S).

Il gergo da decostruire

La vera difficoltà dell’ESG, più che nei principi, sta dunque nel linguaggio e nella terminologia che lo circondano.

Senza un ordine particolare, è probabile imbattersi in alcuni o in tutti i seguenti concetti.

  • ESG fa riferimento a fattori ambientali, sociali e di governance che consentono a un gestore di fondo di selezionare o escludere aziende in base alle loro politiche. Spesso si tratta di un processo negativo: molte aziende non superano i criteri e vengono escluse dal portafoglio. Negli ultimi anni, la parte E (ambiente) e in particolare le politiche climatiche, ha assunto maggiore rilevanza.
  • Impact investing. Si tratta dell’opposto dell’ESG “negativo”. Mentre la maggior parte dei fondi ESG parte da un universo di aziende e ne esclude alcune, l’impact investing parte da aziende che hanno un impatto positivo misurabile, ad esempio ridurre drasticamente le emissioni o produrre miglioramenti sociali concreti.
  • Sustainable investing (investimenti sostenibili). Si tratta di un concetto più ampio e filosofico, che si concentra su come un’azienda interagisce con l’ambiente (e, in misura minore, con la società e gli stakeholder) nel lungo periodo. Qui rientra l’idea di economia circolare, riduzione dei rifiuti, efficienza delle risorse e catene di fornitura più solide.
  • SRi (Socially Responsible Investing) Si tratta di un termine più vecchio, nato dal movimento dell’investimento etico, spesso ispirato da investitori di orientamento religioso che non volevano destinare capitali a imprese considerate “peccaminose”, per così dire. Allo stesso modo, gli investimenti Sharia, adottati dagli investitori islamici, possono essere considerati una forma di investimento etico e socialmente responsabile. Per molti investitori SRI, risultano problematiche aziende legate alla difesa, così come le banche (che applicano interessi), e settori come gioco d’azzardo, tabacco o produzione di alcolici.

L’intervento dei regolatori

E come se tutti questi acronimi e definizioni non fossero già abbastanza complicati, sono intervenuti anche i regolatori – soprattutto in Europa – introducendo nuovi obblighi di rendicontazione per cercare di formalizzare alcune delle idee e delle strategie descritte sopra.

Il focus principale riguarda i fondi che si presentano come ESG, verdi o sostenibili. Le autorità sono arrivate in parte in ritardo rispetto al fenomeno del greenwashing (aziende e gestori che “vendono” come ESG prodotti che non lo sono realmente).

La distinzione chiave è tra fondi Articolo 8 e fondi Articolo 9, stabilita dal Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) dell’UE:

  • Articolo 8: promuovono caratteristiche ambientali o sociali, ma la sostenibilità non è l’obiettivo primario.
  • Articolo 9: hanno come obiettivo esplicito l’investimento sostenibile, con impatto misurabile nel mondo reale.

Tutti gli investimenti inclusi devono rispettare criteri rigorosi per essere considerati “sostenibili” secondo il regolamento SFDR, e i gestori devono fornire informazioni più dettagliate su come tali obiettivi vengono perseguiti e sul loro impatto reale e misurabile.

Esistono poi indici e benchmark come Dow Jones Sustainability Index, MSCI ESG Ratings, FTSE4Good e Sustainalytics, oltre agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) delle Nazioni Unite.

Con il crescente coinvolgimento dei regolatori, è emersa anche la necessità di disporre di benchmark più ampi, validi a livello di mercato, con cui confrontare aziende e fondi. Alcuni di questi benchmark sono indici gestiti da società private, come il Dow Jones Sustainability Index (DJSI), i rating e gli indici ESG di MSCI, la serie FTSE4Good e le valutazioni di rischio ESG di Sustainalytics.

I regolatori prendono inoltre in considerazione benchmark di tipo quasi istituzionale, come gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) delle Nazioni Unite: 17 obiettivi globali accompagnati da 169 traguardi specifici, pensati per affrontare le principali sfide mondiali entro il 2030.

Ogni obiettivo comprende target misurabili dedicati a temi come povertà, fame, salute, istruzione, uguaglianza di genere, accesso all’acqua ed energia, crescita economica, inclusione sociale e tutela dell’ambiente.

Si possono incontrare anche riferimenti ai fondi allineati all’Accordo di Parigi: il loro obiettivo è rispettare i target fissati dall’Accordo di Parigi, puntando a mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C, e preferibilmente entro 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, attraverso la riduzione delle emissioni.

Ciò significa che i titoli in portafoglio, l’indice di riferimento o la strategia d’investimento del fondo seguono percorsi di decarbonizzazione rigorosi ed escludono le attività legate ai combustibili fossili ad alte emissioni, contribuendo concretamente alla transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio.

A complicare ulteriormente il quadro, dal punto di vista del linguaggio, c’è stata una vera e propria esplosione di fondi che investono in senso ampio nell’ESG o nel settore “green”, con gli ETF in prima linea. 

Ad oggi, considerando solo gli ETF quotati a Londra, sono presenti oltre 708 ETF sostenibili secondo il motore di ricerca fondi di JustETF.

Scorrendo la lista dei fondi più grandi, molti dei quali gestiscono miliardi di sterline, ci si imbatte in una moltitudine di definizioni: ETF “screened” (con esclusioni negative di determinati settori), ESG enhanced, World SRI, fondi obbligazionari ESG, fondi socialmente responsabili, e così via.

Utilizzando questi filtri ESG compaiono anche ETF tematici su automazione, robotica e intelligenza artificiale, evidenziando un punto cruciale: non tutti i fondi ESG sono uguali.

Il problema: non tutti i fondi ESG sono uguali

L’ultimo punto sui titoli tecnologici e l’ESG evidenzia una considerazione importante. In generale, se si utilizza uno screening incentrato soprattutto sui fattori ambientali – come avviene nella maggior parte dei filtri ESG – si finirà rapidamente per escludere i settori più “sporchi” e ad alta intensità di emissioni. Settori come la chimica, l’energia e l’industria manifatturiera tendono infatti ad avere punteggi bassi. Tuttavia, queste aziende sono anche molto capital-intensive e impiegano un numero elevato di lavoratori qualificati. In alcuni casi, dispongono anche di una forza lavoro sindacalizzata, elemento considerato positivo in determinate valutazioni sociali.

Al contrario, molte delle aziende che ottengono punteggi elevati secondo gli screening ESG sono imprese leggere in termini di capitale, fortemente orientate alla tecnologia, con una forza lavoro più ridotta e altamente retribuita, spesso non sindacalizzata, e con emissioni decisamente inferiori. 

In alternativa, la selezione potrebbe concentrarsi su risultati più immediatamente “di impatto”, privilegiando aziende dell’energia pulita o impegnate nell’elettrificazione di prodotti storicamente ad alta intensità di carbonio (come le auto elettriche e Tesla). Anche questo può generare squilibri settoriali non intenzionali. Per esempio, si potrebbero escludere le utility tradizionali – perché ancora dipendenti dal gas – e puntare invece su operatori dell’eolico o del solare, settori colpiti durante l’amministrazione Trump e oggi, in alcuni casi, sotto forte pressione competitiva da parte dei produttori cinesi.

Si può quindi comprendere come un approccio ESG perfettamente ragionevole possa portare a concentrazioni significative in alcuni settori, come la tecnologia o l’energia rinnovabile, e a un allontanamento dall’industria pesante “tradizionale”. Questo ha contribuito positivamente ai rendimenti negli ultimi anni, ma non necessariamente all’impatto ambientale complessivo. 

Per ridurre realmente le emissioni, è infatti necessario anche incentivare le aziende con punteggi inizialmente peggiori – ad esempio nei settori della chimica o del cemento – a migliorare le proprie pratiche. Escluderle completamente (strategia prevalente nell’ESG tradizionale) potrebbe rivelarsi controproducente: un fondo a impatto sociale o ambientale, in questo scenario, potrebbe invece investire proprio in quelle aziende – come un produttore petrolifero che riduce drasticamente le emissioni di metano – che verrebbero escluse da uno screening ESG rigido.

Tutto ciò conduce a un ulteriore problema di classificazione: i benchmark utilizzati. Come accennato, esistono vari indici privati gestiti da società come MSCI e S&P Dow Jones. Pur avendo ciascuno punti di forza, sono tutti diversi e seguono approcci propri. Alcuni includono specifiche categorie di aziende, altri le escludono. Un esempio concreto: energia nucleare e aziende della difesa. Alcuni ricercatori orientati alla sostenibilità escludono entrambe perché considerano il nucleare insicuro e l’attività bellica incompatibile con la sostenibilità. Altri sostengono invece che il nucleare contribuisce alla neutralità carbonica e che la difesa della democrazia è un presupposto essenziale per una società equa e sostenibile.

Ogni investitore avrà una propria opinione su queste esclusioni. Lo stesso vale per un’altra questione: escludere o meno tutte le aziende del settore energetico fossile. La maggior parte dei fondi ESG lo fa, ma alcuni includono aziende che stanno compiendo progressi significativi, ad esempio riducendo drasticamente il metano (una delle leve più immediate per la decarbonizzazione).

E c’è un ulteriore elemento di complessità. Molti investitori non vogliono semplicemente escludere aziende, ma desiderano sostenere attivamente realtà che generano un impatto immediato. Questo è tipico degli investitori SRI o a impatto. Tuttavia, molte delle aziende più interessanti sotto questo profilo non sono quotate in borsa, ma private. Ciò implica un approccio simile al private equity, più difficile da inserire in un ETF.

Una checklist per orientarsi negli investimenti sostenibili

In che modo gli investitori sensibili ai temi etici e sociali possono muoversi tra la complessità del linguaggio ESG e definire una strategia d’investimento solida ed efficace?

Innanzitutto, è importante capire se si è un investitore “a impatto” o “a esclusione”. In altre parole: si vuole accedere a un ampio insieme diversificato di titoli, escludendo solo i settori che si considerano discutibili? In tal caso, un fondo ESG standard, noto anche come fondo Articolo 8, sarà probabilmente sufficiente. 

Se invece si desidera avere un impatto positivo e proattivo, è meglio orientarsi verso fondi a impatto diretto, cioè fondi Articolo 9, e valutare strategie che si ispirano a benchmark allineati all’Accordo di Parigi o a strategie Net Zero. Si possono anche prendere in considerazione alcuni fondi a impatto gestiti attivamente, o addirittura pensare di investire in singoli titoli di aziende che generano un impatto concreto e misurabile, come quelle impegnate nelle energie rinnovabili, ad esempio nel settore eolico o solare.

Questo porta al tema dei fondi attivi e passivi. I fondi permettono di ottenere una maggiore diversificazione rispetto all’acquisto di un singolo titolo. Tuttavia, la maggior parte dei fondi ESG è costituita da fondi indicizzati che replicano un benchmark – anche se esistono diversi fondi gestiti attivamente che trattano l’ESG e la sostenibilità con grande serietà. 

Gli ETF sono in genere più economici, ma si basano sui criteri di selezione dei titoli definiti dall’indice di riferimento. Poiché questi indici sono elaborati da società specializzate, è fondamentale analizzarli con attenzione per capire con precisione quali titoli includono e quali escludono. Vale la pena consultare il sito dell’indice e leggere il relativo documento metodologico.

A mio avviso, non tutti gli indici ESG sono uguali. Le società più specializzate si distinguono per l’attenzione con cui analizzano le aziende sottostanti e per il rigore delle loro valutazioni. I fondi gestiti attivamente possono in parte superare i limiti legati all’affidabilità dei benchmark, poiché il gestore svolge direttamente la due diligence. È però probabile che questo livello di analisi comporti costi più elevati.

Per capire davvero la metodologia di un fondo è essenziale comprendere come i creatori del benchmark costruiscono l’indice, o quali principi e priorità sceglie di seguire il gestore attivo. Alcuni si concentrano maggiormente sulla S dell’ESG, cioè sull’impatto sociale, mentre altri privilegiano gli aspetti ambientali, in particolare la riduzione delle emissioni di carbonio. È importante quindi chiarire le proprie priorità: salvare il pianeta o, ad esempio, evitare di investire in settori non graditi come il tabacco, come avviene nelle strategie SRI.

Questo porta anche a un’altra questione, quella dell’energia nucleare e delle aziende della difesa. Personalmente credo che entrambe meritino un posto in una strategia ESG, ma riconosco che molti non saranno d’accordo. Questa decisione sul nucleare e la difesa evidenzia un tema più ampio: al di là dei principi ESG, in quali titoli si finisce effettivamente per investire se si sceglie un fondo diversificato? Conviene controllare le principali partecipazioni del fondo per capire quali tipi di aziende e settori predominano.

È importante andare oltre e analizzare anche le altre posizioni: diversi fondi ESG, ad esempio, includono aziende del settore petrolifero e del gas, cosa che può sorprendere o infastidire alcuni investitori. Tuttavia, come detto, può darsi che il processo di selezione ESG premi proprio quelle aziende energetiche che stanno compiendo sforzi concreti per ridurre le proprie emissioni di carbonio.

Infine, ma non meno importante, è fondamentale non pagare troppo per l’expertise nella selezione e nell’analisi dei titoli. Nell’investimento esiste una sola certezza: costi eccessivi possono compromettere i rendimenti nel lungo periodo. Con l’ESG, come in ogni forma di investimento, è importante mantenere bassi i costi, diversificare con criterio e sapere con chiarezza che cosa si vuole ottenere dalla propria strategia.

Ricorda che, quando investi, il tuo capitale è a rischio. Il valore del tuo portafoglio con Moneyfarm può diminuire così come aumentare e potresti ricevere meno di quanto investito. Il trattamento fiscale dipende dalle tue circostanze individuali e potrebbe essere soggetto a modifiche in futuro.

Le proiezioni di rendimento non sono un indicatore affidabile delle performance future. Le opinioni espresse qui non devono essere interpretate come raccomandazioni, consigli o previsioni. Se non sei sicuro che investire sia la scelta giusta per te, ti consigliamo di consultare un consulente finanziario.

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*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.