L’inflazione è la protagonista indiscussa di questa settimana. Approfondiamo insieme il tema. Gli ultimi dati, degli Stati Uniti e del Regno Unito, hanno confermato una tendenza al rallentamento dell’aumento dei prezzi, e in entrambi i Paesi i numeri sono stati leggermente inferiori rispetto alle attese previste dagli analisti.
Il grafico qui sotto mostra l’inflazione anno su anno negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell’Eurozona. Cosa osserviamo? L’inflazione si sta normalizzando, ma rimane al di sopra del tradizionale obiettivo del 2% che le Banche Centrali tipicamente si danno.
Il dato sull’inflazione, migliore del previsto, ha provocato un rally nel reddito fisso, con un calo dei rendimenti obbligazionari. I mercati finanziari prezzano ora un maggior numero di tagli dei tassi per il prossimo anno, rispetto ad un paio di settimane fa.
Partendo dal fatto che l’inflazione sta rallentando, dobbiamo chiederci cosa pensiamo sia più importante per i mercati finanziari. Le questioni sono due.
- Come reagiranno i responsabili delle politiche monetarie? Risposta difficile da dare. Pensiamo che i banchieri centrali saranno lenti nel dichiarare vittoria sull’inflazione. Se questo significherà tagliare i tassi di 50 o 100 punti base l’anno prossimo è difficile da dire e dipenderà senza dubbio dall’andamento dei dati macro.
- Qual è il livello “giusto” per i tassi di interesse? Questo richiede una prospettiva leggermente più a lungo termine. Possiamo concordare sul fatto che i tassi scenderanno probabilmente l’anno prossimo, anche se possiamo discutere di quanto. Ma non è nemmeno chiaro quale dovrebbe essere il tasso “a lungo termine”. Secondo un recente studio della Federal Reserve di New York, il tasso “neutrale” negli Stati Uniti si aggira intorno al 4%. Le proiezioni più recenti del Federal Reserve Open Market Committee (che vota sui tassi d’interesse) indicano un intervallo, per il tasso di policy a lungo termine, tra il 2,5% e il 3,3%.
Il grafico seguente mostra il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato statunitensi a 10 anni e i buoni del tesoro a 3 mesi. Come si può notare, questa relazione non è stabile e dipende molto dal contesto economico. Tuttavia, la differenza media di lungo periodo tra i due è di circa dell’1,5%.
Quindi, molto grossolanamente, se si considerassero le medie e si dicesse che si dovrebbe avere un tasso sui Fed funds del 3% e uno spread dell’1,5% tra questo e il Treasury USA a 10 anni, si arriverebbe a un rendimento decennale del 4,5%, più o meno dove siamo oggi. Questo significa che non dovremmo aspettarci che il rendimento a 10 anni scenda molto da qui in poi?
Inevitabilmente, non è così semplice. Come possiamo vedere dal grafico, le medie potrebbero non dire molto. Se includiamo le recessioni statunitensi, possiamo notare che spesso è proprio prima o durante le recessioni che il rendimento a 3 mesi è più alto di quello a 10 anni. Se dovessimo assistere a una recessione, ciò potrebbe spingere la Fed a tagliare i tassi in modo molto più aggressivo, contribuendo a far scendere il rendimento dei titoli a più lunga scadenza.
Questa relazione è uno dei motivi per cui il contesto attuale, in particolare negli Stati Uniti, è così interessante. Il mercato obbligazionario sembra suggerire che l’economia è in recessione, o lo sarà presto. Ma altri dati macro suggeriscono, invece, che l’economia statunitense gode di ottima salute. Guardiamo alle vendite al dettaglio negli Stati Uniti e nel Regno Unito: nel Regno Unito sono in calo, rispetto ai massimi del periodo post-COVID, mentre negli Stati Uniti continuano a crescere.
Quindi, mentre pensiamo a quanto possano essere interessanti le obbligazioni a più lunga scadenza, dobbiamo anche cercare di capire in quale contesto economico ci troveremo. Se davvero l’economia statunitense registrerà a malapena l’impatto di un forte aumento dei tassi, allora forse i rendimenti a 10 anni non scenderanno più di tanto. Ma se il rallentamento è dietro l’angolo, allora i rendimenti dovrebbero essere più bassi.
Da dove viene l’inflazione e perché è importante?
Mentre l’inflazione annuale negli Stati Uniti e nel Regno Unito scende, ci si interroga sulla sua origine. Come di solito accade in economia, esistono alcune scuole di pensiero. Una sostiene che si sia trattato di uno shock dell’offerta: il COVID ha comportato una carenza di beni (come i microchip per le automobili) e questo ha fatto salire i prezzi. Il grafico sottostante della Federal Reserve illustra il punto: mostra la misura dello stress della catena di approvvigionamento, che ha raggiunto un picco nel 2021, prima di scendere rapidamente quest’anno.
La seconda scuola sostiene invece che è tutta una questione di massa monetaria. La teoria macroeconomica dice che se c’è troppo denaro a caccia di pochi beni, i prezzi aumentano. La risposta al COVID ha comportato l’immissione di molto denaro nell’economia, facendo salire l’inflazione. Ora la situazione si è invertita e, come prevedibile, l’inflazione sta scendendo e dovrebbe continuare a farlo.
Il grafico sottostante illustra il punto. Mostra la crescita della massa monetaria su base annua negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell’Eurozona. Si possono notare i forti aumenti durante l’era COVID e la graduale riduzione della stessa, che ha portato all’attuale contrazione degli aggregati monetari. Gli economisti monetari sostengono che ciò dovrebbe far scendere l’inflazione.
C’è un terzo punto che vale la pena di sottolineare. Il documento sostiene che negli ultimi 15-20 anni abbiamo vissuto in un insolito periodo di bassa inflazione, in parte guidato dall’integrazione della Cina nell’economia globale e dal suo rapido emergere come grande esportatore. Ci sono alcuni motivi per pensare che questo periodo sia giunto al termine, forse a causa della “deglobalizzazione” o della carenza di manodopera che farà aumentare i salari.
Il grafico cerca di illustrare il punto. Mostra l’inflazione annuale dell’abbigliamento nel Regno Unito. Dalla metà degli anni Novanta fino a circa il 2010, abbiamo assistito a una deflazione dell’abbigliamento, conseguenza delle importazioni a basso costo e del fascino dei discount “fast fashion”. Dopo il 2010, l’inflazione dell’abbigliamento è rimasta sostanzialmente stabile e, dopo il COVID, in territorio positivo. Ciò ha coinciso, a nostro avviso, con l’aumento dei salari e, in alcuni casi, con lo spostamento dei produttori tessili dalla Cina alla ricerca di altri produttori a basso costo. La deflazione nell’abbigliamento potrebbe essere un ricordo del passato.
Perché tutto questo è importante? Riteniamo che sia importante per riflettere su cosa accadrà all’inflazione in futuro. Come abbiamo detto prima, siamo tutti d’accordo che l’inflazione stia rallentando, ma fino a che punto è ancora in discussione. Se pensate che l’età dell’oro della bassa inflazione sia finita, allora è possibile che l’inflazione rimanga più alta più a lungo, al 3% piuttosto che all’obiettivo del 2%. Ma se si pensa che l’impennata dell’inflazione sia stata prevalentemente uno shock dell’offerta, allora si potrebbe sostenere che i banchieri centrali hanno aumentato i tassi inutilmente, aumentando così la probabilità di una recessione e di un’inflazione ancora più bassa. Oppure, se si combinano le due cose, si può sostenere che la deflazione a breve termine è imminente, ma che il tasso di inflazione a lungo termine si è alzato, il che giustifica un tasso di policy più alto in futuro rispetto al passato.
Quindi? Ecco la nostra view.
Il nostro pensiero attuale è che l’inflazione scenderà, le Banche Centrali saranno caute ma taglieranno i tassi l’anno prossimo. Riteniamo probabile che le economie sviluppate rallentino, con gli Stati Uniti che reggeranno meglio dell’Europa. Ragionando a lungo termine, pensiamo che l’inflazione sarà un po’ più “appiccicosa” rispetto al passato e che rimanere al 2% potrebbe rappresentare una sfida. Ciò potrebbe lasciare i tassi di policy strutturalmente più alti rispetto al decennio del 2010, con un risultato simile per i rendimenti dei titoli di Stato a lunga scadenza.
Cosa significa per i portafogli? Il contesto generale sembra migliore di quanto si potesse temere all’inizio dell’anno. L’inflazione sta scendendo, anche se lentamente, e la domanda si è dimostrata più resistente del previsto, soprattutto negli Stati Uniti. Questo potrebbe giustificare un aumento degli asset più rischiosi, come le azioni. A nostro avviso, i due rischi principali sono:
- che l’inflazione si riveli “appiccicosa”, mantenendo i tassi più alti e sconsigliando l’acquisto di obbligazioni a lunga scadenza;
- che l’evidenza di un rallentamento dell’economia cominci ad apparire più chiaramente nei dati macro e, di conseguenza, nei risultati aziendali.
Manteniamo un posizionamento piuttosto conservativo, ma cerchiamo di incrementare le posizioni più rischiose man mano che ci sarà maggiore sicurezza su questi punti.
Richard è il Direttore degli Investimenti di Moneyfarm. Si è unito all’azienda nel 2016. È responsabile di tutti gli aspetti della gestione del portafoglio e della sua costruzione. Prima di entrare a far parte di Moneyfarm, Richard ha lavorato a Londra come analista azionario e gestore del portafoglio presso PIMCO e Goldman Sachs Asset Management, e come analista obbligazionario presso Fleming Asset Management. Richard ha iniziato la sua carriera nel settore finanziario a metà degli anni ’90 nel team di economia globale di Morgan Stanley a New York. Ha conseguito una laurea in Storia presso l’Università di Cambridge, una laurea magistrale in Relazioni Internazionali ed Economia presso la Johns Hopkins University e un MBA presso la Columbia University Graduate School of Business.
*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.