Stretta nella morsa geopolitica globale, alle prese con la crisi della globalizzazione, l’Unione Europea si trova a dover reinventare il proprio ruolo nel mondo: non solo politicamente ma anche economicamente.
Dal 1992, anno in cui è stato siglato l’accordo di Maastricht, ad oggi sembra passato un secolo. Il sogno europeo è stato sulle montagne russe: dopo una fase di grande spinta verso l’integrazione, culminata con l’adozione dell’Euro, sono arrivate la crisi del 2008 e soprattutto quella del debito del 2011. La Brexit, votata nel 2016 ed eseguita nel 2020, ha visto la seconda economia dell’Unione abbandonare il blocco.
Insomma il momentum dell’Europa sembra essersi esaurito e nel mondo accademico e giornalistico sono proliferate le analisi critiche, tese a sottolineare i limiti dell’Unione Europea piuttosto che le prospettive. Anche le recenti crisi, il Covid e l’invasione russa in Ucraina, che hanno rafforzato la governance continentale, non sembrano aver cambiato questa narrativa.
In questo articolo proveremo a fare una radiografia dell’economia dell’Unione, con particolare attenzione alle tendenze e ai limiti strutturali che ne stanno inficiando la performance. Questo articolo non ha la pretesa di consegnare un’analisi definitiva riguardo le prospettive economiche dell’Unione Europea né tantomeno una critica politica rispetto al processo di integrazione. Si tratta di un’analisi parziale che si concentra sui limiti strutturali dell’economia del Vecchio Continente piuttosto che sui punti di forza. Va da sé che l’Europa resta una delle aree geografiche con maggiori risorse e potenzialità del pianeta, ma in questo contesto riteniamo utile concentrarci sulle criticità, per rispondere alla domanda: l’Europa si sta impoverendo veramente?
La ricchezza degli europei
Se guardiamo alla ricchezza media (calcolata sottraendo dagli asset, inclusi i valori immobiliari, i debiti) l’Europa resta una delle regioni più ricche del pianeta, anche se ormai da tempo i paesi nord americani e alcuni paesi del Sud Est asiatico hanno superato le grandi economie europee. Il patrimonio pro-capite degli europei, aiutato anche dall’elevato valore immobiliare, resta uno dei più elevati a livello globale, secondo tra le regioni solo a quello del Nord America (considerando che sul dato della ricchezza per adulto pesano anche i Paesi dell’Europa dell’est).
Insomma, questi dati permettono ai cittadini europei di trovarsi, in modo abbastanza confortevole, tra la classe medio-alta del mondo, come si evince dal grafico che posiziona nella parte destra le fasce più ricche della popolazione globale. La ricchezza media di un cittadino europeo ammonta a 106.000 dollari, il che posizionerebbe l’Europeo medio al ridosso del 10% più ricco della popolazione globale. Da notare l’alta incidenza dell’Europa e degli Stati Uniti nei decili più bassi, dovuta soprattutto alle generazioni più giovani che devono fare i conti con un indebitamento elevato.
La ricchezza europea ha radici molto antiche Proprio in Europa è iniziato il processo economico che alcuni storici chiamano “il grande arricchimento” che ha trasformato il Vecchio Continente nella regione economicamente egemone. L’Europa ha potuto per secoli proteggere questo primato, istituzionale, finanziario e tecnologico, attraverso il colonialismo. Il ‘900, tuttavia, ha visto emergere economie più dinamiche, tendenza che è diventata ancora più marcata negli ultimi anni, che vedono l’economia europea perdere terreno in modo chiaro rispetto ad altre geografie.
Questo trend è ben fotografato dalle metriche del reddito e del reddito aggregato (Pil). Nel 2008 l’economia dell’UE era un po’ più grande di quella americana: oltre 16.000 miliardi di dollari contro 14.700 miliardi di dollari. Nel 2022, l’economia statunitense è cresciuta fino a 25.000 miliardi di dollari, mentre l’UE e il Regno Unito insieme hanno raggiunto “solo” quota 19.800 miliardi. L’economia americana è ora più grande di quasi un terzo. È più del 50% più grande dell’UE da sola.
Questo risultato è il frutto di un rallentamento costante del tasso di crescita che ha raggiunto il suo culmine nell’ultimo decennio. I dati della Banca Centrale Europea mostrano che il tasso medio annuo di crescita economica nei paesi dell’Eurozona è diminuito dal 3,4% negli anni ’70 al 2,4% negli anni ’80, al 2,2% negli anni ’90 e all’1,1% fino al 2010, per scendere sotto l’1% nel decennio seguente. Avere un tasso di crescita così basso per un periodo sostenuto vuol dire perdere capacità produttive e ciò, prima o poi, finisce per influire sul benessere della popolazione
Crisi della produttività
Se guardiamo alla dinamica della produttività, che è uno dei fattori fondamentali per comparare il Pil di diversi paesi, notiamo come in Europa il tasso di produttività stia rallentando sia in termini assoluti, sia in termini relativi rispetto a quello degli Stati Uniti. L’analisi dei fattori contributivi getta luce su una delle possibili ragioni per la quale l’economia europea stia perdendo terreno. Negli Stati Uniti, nonostante il rallentamento, ciò che emerge è che la crescita della produttività è stata guidata dalla Total Factors Productivity (TFP). Per semplificare, la Total Factors Productivity è una metrica che misura l’extra produzione a parità di fattori di input (capitale e lavoro), essa è considerata una stima dello stato di avanzamento tecnologico del sistema industriale. Insomma, per quanto stime e indicatori non siano esenti da limiti, possiamo dire che evidenziano chiaramente un ritardo dal punto di vista dell’innovazione delle aziende europee. Anche guardando alle imprese di frontiera – il 5% delle imprese più produttive – nel settore manifatturiero notiamo come esse abbiano ridotto notevolmente i loro tassi di crescita della produttività.
Il rallentamento del tasso di crescita si riflette sul Pil pro capite. Per offrire un benchmark, il prodotto interno lordo per persona negli Stati Uniti è di quasi 70.000 dollari. Gli unici paesi europei in cui è più elevato sono Lussemburgo, Svizzera, Norvegia e Irlanda, dove i dati sono distorti dalle molte imprese che hanno spostato lì la sede per ragioni fiscali. In Germania, la prima potenza economica europea, il Pil pro capite (aggiustato per la parità di potere d’acquisto) è di 58.000 dollari. Ciò lo colloca allo stesso livello del Vermont, ma molto al di sotto di New York (93.000) e California (86.000). I confronti sono ancora meno lusinghieri per gli altri paesi europei. I redditi in Gran Bretagna e Francia sono pari a quelli del Mississippi (42.000 dollari), lo stato più povero d’America.
La crisi demografica
Guardando al futuro, una delle varianti per determinare le prospettive di crescita a lungo termine è la demografia e l’Unione Europea, proprio in questi anni sta scavallando il picco della propria popolazione. Le proiezioni demografiche indicano che l’UE va verso una significativa riduzione della sua popolazione entro la fine del XXI secolo. Secondo le stime fornite da Eurostat, il blocco potrebbe assistere a una diminuzione del 6% della sua popolazione, pari a 27,3 milioni di persone in meno, entro il 2100.
Dopo due anni di declino demografico causato principalmente dalla pandemia di COVID-19, la popolazione europea ha iniziato a riprendersi nel 2022, raggiungendo una stima di 451 milioni di persone all’inizio di quest’anno. Tuttavia, questa crescita è in gran parte attribuita all’afflusso massiccio di rifugiati ucraini. L’ufficio statistico dell’UE suggerisce che la popolazione dell’Unione europea potrebbe continuare a crescere leggermente, raggiungendo un picco di 453 milioni di persone nel 2026. Tuttavia, questa crescita sarebbe temporanea, e si prevede che la popolazione dell’UE comincerà a scendere fino ad attestarsi a 420 milioni entro il 2100.
Queste previsioni demografiche si basano su una serie di fattori, compresi i tassi di fertilità, mortalità e migrazione. Il calo della popolazione si accompagna all’invecchiamento di essa. Nel 2100, gli individui di età superiore ai sessantacinque anni potrebbero rappresentare fino al 32% della popolazione totale, rispetto al 21% del 2022. Questa tendenza comporta una notevole modifica nella struttura demografica, con una previsione che indica più persone con un’età superiore agli 80 anni rispetto a coloro che hanno meno di 20 anni. Le conseguenze per quanto riguarda il welfare e il mercato del lavoro sono significative e la gestione di esse diventerà una problematica che peserà sui bilanci europei sempre di più nel futuro.
Queste proiezioni demografiche si manifestano in un momento in cui la Cina ha registrato il suo primo calo demografico in sei decenni, con un saldo negativo tra nascite e decessi. Il lato positivo è che l’aspettativa di vita nell’UE è aumentata notevolmente nel corso del secolo scorso, passando da 69 anni nel 1960 a 80,1 anni nel 2021.
Indipendenza energetica
Il 2022 ha visto l’Europa affrontare con successo le sfide energetiche derivanti dalla sua dipendenza dalla Russia, ma il tema dell’indipendenza energetica e della sicurezza delle catene di approvvigionamento è tornato alla ribalta, per un continente che può vantare su poche risorse naturali e materie prime. L’invasione russa in Ucraina ha messo in evidenza la dipendenza dell’Unione Europea, portando a una drastica riduzione delle esportazioni di gas e una considerevole riduzione dei flussi settimanali da 3.500 milioni di metri cubi a soli 500 milioni. Per rispondere a questa situazione, l’Europa ha adottato un approccio deciso introducendo un embargo sul carbone, il petrolio greggio e i prodotti petroliferi russi, con l’obiettivo di ridurre drasticamente la sua dipendenza da queste risorse. Di conseguenza, la dipendenza europea dal gas (che rappresentava il 40% del consumo), petrolio (25%), prodotti petroliferi (15%) e carbone (60%) russi è stata notevolmente ridotta entro il 2023.
Tuttavia, questo successo ha comportato un costo notevole. I prezzi dell’energia sono aumentati in modo significativo, con un impatto diretto sulle famiglie e sull’industria. Alcuni paesi hanno dovuto sostenere costi fiscali pari a diversi punti percentuali del PIL, che ammontano complessivamente a centinaia di miliardi di euro nell’UE. Questi impatti non sono stati equamente distribuiti tra diversi settori, redditi e paesi, evidenziando le sfide politiche e socio-economiche associate a questa transizione energetica: se i problemi non sono gli stessi per tutti, diventa più complesso trovare soluzioni comuni. I prezzi dell’energia nell’UE sono notevolmente più alti rispetto al periodo precedente la crisi, sia in termini assoluti che rispetto ad altre regioni del mondo, come gli Stati Uniti. Prezzi energetici più alti determinano una perdita di competitività dell’industria.
Nel lungo periodo, l’Ue deve affrontare la sfida della decarbonizzazione, che può diventare un’opportunità. Tuttavia, le politiche attuali non sono completamente allineate con questa visione, e saranno necessari ingenti investimenti nei mercati energetici e nelle infrastrutture per raggiungere gli ambiziosi obiettivi. La pianificazione energetica dell’UE è complessa, guidata da obiettivi e regolamentazioni a livello europeo e nazionale. La transizione energetica resta una sfida difficile che richiede una governance efficace e una cooperazione tra Stati membri con diversi mix energetici e diversi obiettivi.
Il deficit sull’innovazione
L’innovazione in Europa è al centro di numerose sfide che richiedono una riflessione approfondita. Non è sempre semplice misurare il livello di innovazione e gli impatti su un’economia. Spesso si fa affidamento sulle spese delle aziende in Ricerca e Sviluppo (R&S) come indicatore chiave dell’input per l’innovazione. In questo ambito l’Europa ha dichiarato un obiettivo del 3% del Pil già nel lontano 2002, questo obiettivo è stato confermato nella strategia dell’UE per il 2020 a riprova che non si sono fatti molti progressi da allora.
Ma le spese per l’innovazione non si limitano alla R&S; includono anche l’adozione di innovazioni da parte delle imprese. In questo contesto, è preoccupante notare che il numero di imprese coinvolte in attività innovative è in costante diminuzione. Un’analisi più approfondita delle spese di R&S rivela che queste siano messe in atto da poche grandi aziende. Per esempio, se osserviamo i dati delle spese di R&S delle aziende europee nel 2015, notiamo una distribuzione altamente disomogenea: il 10% delle aziende più grandi rappresenta il 77% delle spese totali, mentre l’1% delle aziende acconta per quasi un terzo di tutte le spese di R&S a livello europeo.
Gli investimenti limitati hanno avuto la conseguenza di impedire ai campioni europei di imporsi a livello internazionale. Le sette più grandi aziende tecnologiche del mondo, per capitalizzazione di mercato, sono tutte americane e ci sono solo due aziende europee tra le prime 20. Anche se si guardano i settori di frontiera come l’intelligenza artificiale troviamo il dominio delle industrie statunitensi e asiatiche rispetto a quelle europee. Questa situazione non è favorita, tra le altre cose, da un mercato dei capitali non unificato che rende complesso trovare finanziamenti della scala necessaria per competere con le controparti internazionali.
Se guardiamo alla composizione dei principali indici azionari ci accorgiamo che il settore tecnologico pesa per meno del 10% dell’indice di mercato in Europea, mentre in Asia questa soglia è superata abbondantemente e negli Stati Uniti il settore pesa intorno al 30% dell’indice. L’Europa fa meglio in settori più tradizionali e in quelli legati al lusso e al lifestyle, dove le aziende europee dominano i mercati globali. Il problema di queste industrie è che sono più cicliche ed esposte alle esportazioni estere.
In altre parole, sembra che un numero limitato di aziende sia in grado di sfruttare appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie, mentre molte altre rimangono indietro. Questi dati suggeriscono che l’Europa deve affrontare le sfide dell’innovazione in modo sistematico, creando un contesto favorevole alle imprese anche piccole imprese che vogliono partecipare. Questo si tratta di un passaggio fondamentale se l’Unione Europea vuole proteggere il suo modo di vivere, il suo welfare e il suo status di area geograficamente ricca nel lungo periodo.
*Investire in strumenti finanziari comporta rischi inerenti, tra cui perdita di capitale, fluttuazioni del mercato e rischio di liquidità. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri. È importante considerare la tua tolleranza al rischio e gli obiettivi d’investimento prima di procedere.