Durante le ultime settimane i mercati hanno continuato a muoversi secondo la linea delineata nel periodo recente: incertezza, volatilità, nervosismo ma performance tutto sommato positive.
A fungere da catalizzatore è stato principalmente l’emergere della variante Omicron. Al diffondersi delle notizie riguardo questa nuova variante del Covid scoperta nell’Africa meridionale, i mercati hanno reagito in alcuni casi piuttosto bruscamente, spaventati dalla prospettiva che potesse rivelarsi difficilmente controllabile. I primi dati tranquillizzano sul fatto che Omicron non sia eccessivamente pericolosa, anche se non è da escludere che la politica sui vaccini debba essere in un certo senso ripensata.
La reazione dei mercati è stato un utile promemoria di come la pandemia sia ancora oggi un driver fondamentale della performance dei mercati, in particolare per le sue conseguenze sulla traiettoria della crescita economica, inflazione, e politica monetaria. Questo non è di per sé una brutta notizia, in quanto ci indirizza verso i dati sull’economia reale che per ora continua a mostrare una notevole forza.
Negli ultimi due anni l’economia globale ha costruito le infrastrutture per continuare ad operare anche in una situazione eccezionale come quella della pandemia. Nel 2021 si stima una crescita reale (al netto dell’inflazione) del 6%, e per il 2022 un livello del 5%. Gli utili sono previsti in crescita del 20% nelle principali aree geografiche, e per ora eventuali scenari recessivi appaiono estremamente remoti.
Dopo un momentum negativo alla fine del terzo trimestre, la sorpresa economica è tornata in territorio positivo per le principali aree geografiche.
La crescita dell’inflazione
L’emergere della variante Omicron ha fatto anche sorgere dubbi su eventuali conseguenze per l’inflazione. Quando si parla di andamento dei prezzi, la platea è come sempre divisa in due categorie, chi si concentra sulla domanda e chi sull’offerta. C’e quindi chi pensa che un’eventuale variante possa prima di tutto deprimere la domanda, e quindi pressare al ribasso l’inflazione, mentre al contrario c’è chi pensa che questo nuovo sviluppo possa stressare ancora di più la catena di approvvigionamento globale, aumentando ancora i prezzi.
È ancora presto per avere una view definitiva, però abbiamo iniziato a chiederci quali potrebbero essere le conseguenze per l’azionario di un’inflazione che sembra essere “più alta, più a lungo”. Con questa prospettiva è opportuno ragionare su quelli che potrebbero essere i vincitori e gli sconfitti di questo scenario nel contesto dei mercati azionari. C’è chi sostiene che le azioni rappresentino una discreta copertura contro l’inflazione, questo perché nel medio periodo le aziende quotate hanno il potere di aumentare i prezzi.
Ciò vale fino a quando la crescita dei prezzi raggiunge il punto in cui le banche centrali si sentono obbligate ad agire, stringendo i cordoni della politica monetaria. Ciò può portare il valore delle azioni a diminuire, poiché il valore dei multipli diminuisce e i ricavi aziendali potenzialmente diminuiscono, a seconda di quanto le banche centrali decidano di essere aggressive.
Fatte queste considerazioni, ecco alcune ipotesi (non esaustive e anche un po’ contraddittorie) su possibili vincitori e vinti dell’inflazione nel contesto dei mercati azionari.
- Il primo modo di vedere il problema, in modo piuttosto limitativo, è che le azioni “value” potrebbero sovraperformare, in particolare se l’inflazione è guidata dalla domanda. È l’argomento “la marea solleva tutte le barche”: se l’inflazione è in aumento, allora tutti dovrebbero vedere migliorare i propri ricavi (anche se non necessariamente i propri volumi).
- La seconda ipotesi è quella che sostiene che le “aziende di qualità” sono destinate a sovraperformare. In questo contesto, l’inflazione non aiuta tutti: ciò che conta davvero è la capacità delle aziende di gestire la differenza tra l’inflazione dei ricavi e l’inflazione dei costi. Se la crescita dei ricavi è superiore all’aumento dei costi della produzione, bene. In caso contrario, la capacità di generare utili dovrebbe diminuire. In teoria, le aziende “di qualità” dovrebbero avvantaggiarsi della situazione.
- La terza ipotesi è che le grandi imprese dovrebbero fare meglio delle piccole imprese in un contesto di inflazione. Le grandi aziende potrebbero essere in grado di negoziare in modo più aggressivo con i fornitori e sono solitamente più diversificate e meno suscettibili all’inflazione dei costi.
Negli ultimi mesi, come Moneyfarm, abbiamo mantenuto invariata la nostra esposizione azionaria, riflettendo l’idea che l’inflazione non sarà per ora un ostacolo significativo per le azioni. Per quanto riguarda i vincitori, preferiamo gli argomenti in favore della qualità e delle dimensioni. Crediamo ci siano anche dei meriti nell’argomento in favore dei titoli Value, ma pensiamo che un ambiente più inflazionistico favorisca soprattutto le imprese “ad alta qualità”.
Politica monetaria
Ovviamente non siamo gli unici a riflettere sulle conseguenze dell’inflazione. I banchieri di tutto il mondo stanno ormai abbandonando la retorica dell’inflazione transitoria, sulla quale purtroppo hanno speso parte della loro credibilità. La futura direzione della politica monetaria sembra infatti per ora meno chiara che in passato. L’economia post Covid, profondamente diversa dagli anni precedenti, sta compromettendo il tradizionale framework basato su inflazione e disoccupazione. Materie prime in forte crescita, salari, disruption dovute alla riorganizzazione dell’impianto manifatturiero stanno effettivamente distorcendo al rialzo i dati sull’inflazione, mentre il cambiamento delle dinamiche lavorative ha profondamente alterato il mercato del lavoro, sfalsando forse la correlazione tra occupazione e attività economica. Questo va a inceppare quel meccanismo di osservazione del dato, interpretazione e reazione che negli ultimi 5 anni abbiamo dato per scontato.
Vediamo ora una notevole dispersione nelle previsioni dei vari operatori – economisti, investitori, analisti – sulle prossime mosse della Federal Reserve, e delle altre banche centrali. Ricordiamo che la forward guidance, ossia la capacità di comunicare chiaramente la direzione della politica monetaria, è stato un elemento di stabilità fondamentale per i mercati negli anni passati. Ora che inflazione e disoccupazione giustificherebbero un percorso restrittivo della politica monetaria, capiremo se la flessibilità ricercata dai banchieri centrali nell’ultimo anno e mezzo maturerà i suoi frutti oppure si rivelerà un boomerang per i mercati. L’ultimo mese ha visto la riconferma di Jerome Powell alla guida della Federal Reserve forse si è mossa proprio in questa direzione, garantire almeno un elemento di continuità di un contesto che è cambiato rapidamente, e su cui tutti ci stiamo ancora sintonizzando.
Posizionamento dei portafogli
Per ora riteniamo che l’azionario abbia ancora margini di crescita, e non abbiamo ancora ridotto il rischio dei portafogli. Anche di fronte alle oscillazioni di novembre abbiamo osservato comunque una reazione ordinata, con i tassi in calo e i tradizionali safe heaven in crescita.